#RomaFF19: The Substance, la recensione del film di Coralie Fargeat

The Substance (trailer) comincia da una delle numerose stelle sulla Walk of Fame, quella di Elisabeth Sparkle (Demi Moore), attrice premio Oscar, tanto amata dal pubblico, ora star della televisione. Scrutiamo dall’alto l’elegante e preciso assemblaggio, poi l’inaugurazione: Elisabeth sulla sua stella immacolata, attorniata da una folla di fotografi che la acclamano. Inizialmente la gente evita di calpestare il “monumento”, lo salta, lo aggira, sempre ammirandolo – la grande Elizabeth Sparkle! -, per non disonorare il sacro. Ma la sacralità sfuma col tempo che passa. Allora la stella comincia ad essere calpestata, senza più nessuno a contemplarla, è invecchiata e piena di crepe. La cineasta francese Coralie Fargeat, qui al suo secondo lungometraggio, guardando dall’alto come a simulare uno sguardo divino, giudicatorio, sintetizza efficacemente la fugacità estetica di un corpo (che sia un oggetto, che sia di carne) e la sua conseguente inconsistenza di fronte alla prepotenza del tempo che passa.

Elisabeth ha appena compiuto cinquant’anni e viene licenziata dalla trasmissione di aerobica nella quale ha lavorato fino a quel momento (spesso viene mostrato un lunghissimo corridoio riempito di poster che la ritraggono), non rientrando più, a causa dell’età, nelle grazie del pubblico. L’attrice ricorre alla “Sostanza” – significativo l’uso di un nome così anonimo per un prodotto di tale rilievo – che le permetterebbe di tornare alla giovinezza, creando un’altra sé. Dopo essersi iniettata il prodotto dalla schiena tra contorsioni disturbanti e urla di dolore lancinante, esce la sua versione più giovane, Sue (Margaret Qualley), «più bella, più perfetta», che da subito sostituisce Elizabeth come pin-up. Unica regola imposta dal servizio: sette giorni Elizabeth, sette giorni Sue, mai alterare l’equilibrio, altrimenti il tempo che si prende una delle due verrà tolto all’altra.

«Sei sempre una!», ricorda una voce al telefono. Un’unica entità divisa in due corpi. Corpi che la regista (in)segue morbosamente – dentro ad ambienti distorti all’inverosimile – tentando di avvicinarsi il più possibile ai dettagli del fisico, ai volti, alla pelle, agli occhi che vengono accecati nel perseguimento di ideali irrealistici di bellezza e di una non accettazione del presente. Si sentono gli echi di un cinema horror del passato, quello di David Cronenberg per primo, o di Brian Yuzna, tanto che la creatura ElizabethSue potrebbe partecipare alla festa finale del capolavoro Society, o ancora Brian De Palma col finale alla Carrie.

È un film conflittuale sia nella trama che nella struttura, che ragiona, appunto, sul cinema del passato, ma con i temi e i linguaggi di oggi – dall’estetica pop alla musica tecno – come se volesse attrarre a sé una molteplicità di pubblici. Si unisce ad altre opere, come a Raw o Titane entrambi di Julia Ducournau, per la (ri)nascita di un body-horror contemporaneo, genere che sembra aver trovato nel festival di Cannes un luogo sicuro, dove Titane ha vinto nel 2021 la Palma d’Oro, e The Substance nel 2024 il premio alla miglior sceneggiatura.

Forse rimane fin troppo didascalico nelle analisi che pone, passando repentinamente, inoltre, dalla non accettazione di sé di Elizabeth ad una non accettazione del singolo nel contesto sociale, sulle orme di The Elephant Man. Coralie Fargeat riesce comunque a modellare un genere cinematografico, non rimanendo attaccata agli stilemi dello stesso genere già esplorati da altri, ma annettendo elementi che rendono The Substance, forse, un film fondamentale, un altro inizio.

Dal 30 ottobre al cinema.

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