La macchina da presa si muove in un dedalo di tronchi, si affaccia nelle caverne, nel folto della foresta, scende ai piedi di alberi immensi, dove il suolo è la melma rossastra e fluida delle rive del Missouri. Si libra nel cielo. Montagne innevate, scintillio delle acque di fiumi gelidi. Intrico di macchie e pianure senza confini. Terra deserta come il sogno dell’aldilà, vuota di leggi e piena del mito inesorabile ed appassionante della frontiera. Non è l’Eden. L’inverno sta per capovolgersi sui cacciatori di pelli mentre si preparano a partire quando l’accampamento viene attaccato dagli Indiani Arikara. La battaglia è violentissima e sanguinosa, raggiunge effetti di cruenta spettacolarità nelle frecce che piovono dall’alto e si conficcano nelle carni dei trappers, più rapide e mortali dei proiettili delle carabine ad avancarica dei bianchi. Nessun dettaglio della razzia è trascurato, negli inseguimenti a cavallo e nei combattimenti corpo a corpo all’arma bianca.
L’immaginario western di Alejandro González Iñárritu ha respiro epico, brillantezza glaciale e le sfumature rosso vivo della morte al macello. L’agguato iniziale, girato in piani sequenza alternati a piani ravvicinati degli attori, è uno dei momenti migliori del film. Immagini crude e verosimili, esaltate dal lavoro di Emmanuel Lubezki, direttore della fotografia già al fianco del regista messicano in Birdman. Da subito vi è il contatto emotivo con il protagonista, lo scout Hugh Glass, guida dei cacciatori e padre protettivo di Hawk (Forrest Goodluck), cui già hanno strappato via la mamma in un orribile massacro. La vicenda del montanaro attaccato da un orso, dato per morto e sepolto, che si mette in viaggio per vendicarsi di chi l’aveva abbandonato, aveva già ispirato il film di Richard Sarafian Uomo bianco va col tuo dio (Man in Wilderness) con Richard Harris. Da Kit Carson a Davy Crockett a Jeremiah Johnson, i coriacei mountain man hanno sempre affascinato Hollywood. Iñarritu non si accontenta di mostrarli lungo i sentieri selvaggi della sopravvivenza, vuole far vedere come trovavano rifugio dal freddo nella carcassa di un cavallo sventrato, come si cauterizzavano le ferite o come prendevano un pesce nelle acque gelide. Sono diventate leggendarie, oltre alla splendida fotografia, le prove del quasi invulnerabile Leonardo Di Caprio e del cinico Tom Hardy nei panni del traditore John Fitzgerald.
L’odissea di Glass è la sfida estrema del personaggio e dell’attore al tempo stesso. Un viaggio intervallato da visioni oniriche e allucinazioni febbrili. Le indubbie doti tecniche di Iñárritu puntano all’esperienza sensoriale della Storia e della Natura. La scena della lotta di Glass con l’orsa grizzly, realizzata in CGI (Computer Generated Imagery), rende “lo spettatore come una mosca che gira intorno all’attacco” – così la descrive Di Caprio – voyeur di una lotta primordiale per la vita. Scena che lo lascia quasi morto, poi lo vediamo sepolto e redivivo incamminato nel gelido splendore di paesaggi mozzafiato. Un percorso che mette alla prova la carne e lo spirito. Cosa siamo capaci di fare di fronte alla fine? Quanta brutalità possiamo sopportare? Questi sono gli interrogativi che si creano nella mente di chi guarda e questi sono gli interrogativi che Iñarritu si deve essere posto nei 5 anni in cui ha pensato alla realizzazione di The Revenant. Il suo eroe non è formato solo delle due metà complementari corpo e spirito, ma di una organicità ulteriore, c’è un aspetto spirituale nella corporeità, come la fratellanza spontanea con il Nativo che si prende cura di lui, e c’è un aspetto corporeo come la materializzazione dei ricordi della moglie Pawnee. È un corpo spiritualizzato quello del pioniere che si muove nel selvaggio west, prima del West e molto più selvaggio.
Iñárritu ha creato un supereroe della resistenza sotto zero nell’aura romantica e indistruttibile dei pionieri, preoccupandosi più della frontiera tra la vita e la morte che dello scontro di civiltà, in cui non si riconosce da che parte sta il selvaggio. L’obiettivo si appanna e il viso sporco e provato di Glass appare sfocato. Seguiamo i tronchi degli alberi fino a vedere su, lontano lontano, le loro chiome e dei minuscoli fiocchi di neve si poggiano sull’obiettivo. Siamo lì. Potremmo raccoglierli con la lingua anche noi come i personaggi del film. È realismo estremo ed ammirato, come la stoica impassibilità dei nativi simile alla semplicità della natura che li circonda. Volti sporchi e sfregiati, cieli tersi e paesaggi incontaminati compongono The Revenant. Un’ode alla natura e alla resistenza dell’anima.
As long as you can still grab a breath, you fight. You breathe. Keep breathing.
Molto si è detto riguardo alla lentezza del film, ai pochi dialoghi. Sì, è vero, è un racconto iperrealistico della vita e dell’anima e procede lento ed inesorabile come il debole calore del fiato nel corpo quasi congelato di Hugh Glass. Si sono fatti molti distinguo sulla prova di Leo Di Caprio, se sia premiabile o meno con l’oscar. Possono prevalere le aberrazioni del crepar di fame e le sofferenze inflittegli da Iñárritu nella corsa alla statuetta?
Roberta Fiaschetti