#Venezia81: Jouer avec le feu, la recensione del film di Delphine e Muriel Coulin

The Quiet Son – in originale Jouer avec le feu, delle sorelle francesi Delphine e Muriel Coulin e in Concorso all’81esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia – è davvero un’amara descrizione del periodo storico in cui viviamo. Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, non per l’argomento del film: una drammatica storia familiare che vede un padre vedovo (Vincent Landon) in conflitto con uno dei due figli (Benjamin Voisin), per il suo preoccupante avvicinamento ad ambienti poco raccomandabili dell’estrema destra.

No, il vero problema di The Quiet Son è come affronta questa tematica (che in fin dei conti si esaurisce in questo brevissimo riassunto), e le modalità di articolazione – pressoché nulle – di tale discorso politico sono paradossalmente più sintomatiche del clima politico in cui prende vita rispetto che al soggetto stesso del film. Il ritorno di movimenti estremisti in tutta Europa è un fatto noto dei nostri tempi, così come la diffusione di azioni violente e di pericolose ideologie alla base di queste “filosofie” politiche. È ancora più segno dei tempi, però, la controproducente polarizzazione del dibattito attorno a tali questioni calde, che The Quiet Son rappresenta fin troppo bene nel suo atteggiamento svogliato e inconcludente di riflettere sul tema.

Il film delle sorelle Coulin dimostra di non saper andare oltre a una inutile logica oppositiva e binaria, non tentando neanche di capire il fenomeno alla base del racconto – ma perché un ragazzo qualsiasi della provincia francese dovrebbe legarsi a dei gruppi neofascisti? –limitandosi a osservarlo da una posizione di certezza, o comunque di pretenziosa ovvietà di stare dalla parte giusta, senza neanche dirci il motivo.

L’unica cosa che The Quiet Son riesce ad assorbire dal suo tempo è la degenerazione, o forse proprio l’assenza, di un dialogo politico: quella che dovrebbe essere una disamina critica su un qualcosa di attuale e complesso, infatti, si esaurisce in un piatto didascalismo che non fa luce su nulla, ma vive tutto su frasi fatte e su una retorica semplicistica. Non c’è conflitto, trasformazione, sfaccettature: la rappresentazione degli eventi è tutta filtrata in una lente negativa e allarmistica, dando per scontato che le cattive compagnie del ragazzo siano sbagliate a prescindere.

Verso la fine pure il film stesso pare rendersi conto della sua incapacità a riflettere sul presente in modo veramente costruttivo, delegando al monologo del padre di riassegnare un significato a quanto visto fino a quel momento e recuperare tutti i non detti, le approssimazioni e le banalità percorse nel film, che la discussione politica non la affronta ma la riduce al grado zero, esponendola tutta sulla sua pelle.

Purtroppo, non regge neanche da un punto di vista puramente drammatico. Scordiamoci dell’argomento sociale, delle possibili implicazioni contestuali, facciamoci bastare il racconto familiare: la costruzione narrativa è comunque insufficiente, tra personaggi bidimensionali e una storyline senza progressione, che parte quasi in medias res e segue fino alla fine la stessa identica linea, senza deviazioni o acuti di alcun tipo. Più si scava (in un film di superficie, inscavabile) più The Quiet Son fa acqua da tutte le parti.

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