The Monkey, la recensione: non solo un giocattolo

the monkey, la recensione

La prima metà di The Monkey (trailer) potrebbe essere ambientata nel 1999, negli ultimi giorni di un secolo caratterizzato da acuti shock di brutalità, ma nella sua interezza il film sembra essere uscito direttamente dal manuale del genere horror dei primi anni 2000, i film che Joshua Rothkopf ha definito come «horror con morte dall’alto» che sono spuntati in risposta all’11 settembre. Final Destination difatti sembra essere un’ispirazione tanto quanto il materiale originale di King. «Tutti muoiono», dice la gentile e comprensiva madre di Lois (Tatiana Maslany) ai suoi figli Hall e Bill (Christian Convery da bambino, Theo James da adulto) dopo che hanno assistito a un incidente particolarmente raccapricciante nella quale è morta la loro babysitter. Ed è proprio così, anche se di solito non tutti/e se ne vanno nel modo barocco degli sfortunati personaggi del film. E dopo così tanti raccapriccianti omicidi preceduti dal suono del tamburo della malefica scimmia giocattolo, che ricordano varianti del vecchio gioco da tavolo Trappola per topi, si inizia a chiedersi quanto queste morti siano casuali.

Il secondo atto di The Monkey fa un salto in avanti di 25 anni, e gli ormai cresciuti Hal e Bill scoprono che “The Thing You Never Call a Toy” è tornato per scatenare ancora più scompiglio nelle loro vite. Bill serba inoltre un rancore pluridecennale nei confronti del fratello, che colpevolizza per la morte della madre. Il figlio adolescente di Hal, Petey, che vive con la madre, si ritrova nel mezzo di un’eredità familiare colorata da una carneficina. È evidente che il film non ci sta parlando solo di una scimmia giocattolo, ma anche di traumi generazionali e delle colpe dei padri che ricadono sulle vite dei figli: d’altronde, King stesso ci ha costruito un impero sull’elaborazione di queste due tematiche.

L’unica cosa certa nella vita è che tutti e tutte moriremo. Non ci piace pensarci e probabilmente non siamo programmati per questo: quindi, l’umanità crea religioni e filosofie per applicare una sorta di principio ordinatore, così si può avere fede in un progetto più ampio che tenga la nostra mente lontana dall’inevitabile. Anche le storie dell’orrore possono aiutare in questo, dandoci spazi sicuri per esorcizzare questi sentimenti di terrore fondamentale, applicando regole e risoluzioni arbitrarie a un caos astratto che è molto più spaventoso di qualsiasi horror.

Il racconto di Stephen King The Monkey è stato originariamente pubblicato in un numero del 1980 della rivista Gallery e in seguito antologizzato nella popolarissima raccolta dell’autore, Skeleton Crew (1985). La storia riguarda proprio il giocattolo del titolo, tramandato da un padre scomparso ai suoi due figli, che funge da presagio di morte: i suoi piatti che si colpiscono – o, nel caso del film, le bacchette che colpiscono il tamburo – annunciano (forse causano) gli strani incidenti e le calamità che uccidono i membri di una piccola comunità nella campagna del Maine. Questa scimmia suona un tamburo perché i piatti che si colpiscono sono stati registrati come marchio dalla Walt Disney Company nel 2010 per un personaggio di Toy Story 3, e qualsiasi cosa che sembrasse troppo simile sarebbe vulnerabile a rivendicazioni di violazione del copyright, anche se varianti di questo giocattolo sono in circolazione dagli anni ’30.

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Nonostante i migliori sforzi del protagonista, il giocattolo lo segue fino all’età adulta. Incapace di essere distrutto o contenuto, è indomabile come la morte stessa. Il film mantiene le basi della storia di King, seguendo due fratelli gemelli che trascorrono 25 anni a litigare su come gestire il giocattolo infestato e sorridente che sembra sempre riapparire prima che qualcuno nella loro vita subisca una terribile fine. Ciò che è rinfrescante in The Monkey è che non c’è alcuna tradizione che spieghi le regole arcane con cui il mostro possa essere sconfitto. Come la morte stessa, è un’inevitabilità con cui bisogna imparare a convivere – e qui probabilmente c’è una delle più grandi differenze tra film e racconto. L’opera audiovisiva si allinea molto al concetto contemporaneo – che vediamo spesso da Babadook in poi – del male che non si può sconfiggere, ma solo accogliere. Questo è un approccio ammirevolmente adulto per un film così pieno di umorismo grottesco. Il terzo atto in particolare è pieno di meccanismi che sembrano dei set up sulla strada verso l’accettazione del dolore.

Approfondendo Hal, il nostro protagonista e l’asse centrale della storia, abbiamo a che fare con un uomo tormentato dai ricordi d’infanzia, segnato dalla presenza della scimmia maledetta e dalle tragedie che l’hanno accompagnata. Hal è un personaggio complesso, definito da sensi di colpa e determinazione. Fin dall’infanzia, la sua vita è stata segnata dall’associazione tra il suono del tamburo della scimmia e le morti che sembravano seguirne. Questa connessione ha lasciato profonde cicatrici nella sua mente, plasmando il suo carattere e le sue decisioni nell’età adulta. Hal lotta con sentimenti contrastanti verso suo figlio e la sua determinazione a distruggere la scimmia una volta per tutte riflette la sua disperazione nel proteggere la sua famiglia e liberarsi dal peso psicologico che lo tormenta da decenni. Hal è, in sostanza, un uomo intrappolato tra il passato e il presente, in cerca di redenzione di fronte a un male che sembra invincibile.

Sebbene sia più un oggetto che un personaggio, la scimmia è, senza dubbio, l’antagonista principale della storia. Con il suo sorriso immutabile e gli occhi di vetro, questo giocattolo meccanico funziona come un simbolo di male e di morte ineluttabili. La scimmia sembra prendere vita in momenti cruciali per annunciare tragedie: la sua influenza malevola e la sua capacità di tornare più e più volte, nonostante i tentativi di Hal di liberarsene, la rendono una presenza inquietante e quasi onnipresente. La scimmia incarna l’idea che alcuni mali sono impossibili da sradicare e il suo ruolo di catalizzatore per le morti nella vita di Hal sottolinea il concetto di impotenza di fronte a forze più estese e sconosciute.

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Questa storia unisce quindi l’horror psicologico a un’analisi profonda del senso di colpa, della paura e del legame tra il quotidiano e il soprannaturale. Come abbiamo detto però, la narrazione ruota anche attorno a una scimmia meccanica, un giocattolo apparentemente innocuo carico di un male inspiegabile che sembra causare tragedia ogni volta che suona il suo tamburo. Questo oggetto, che in altre circostanze potrebbe essere considerato un simbolo dell’infanzia o della nostalgia, diventa qui una metafora della paura e del destino. La scimmia rappresenta l’inevitabile, ciò che si cerca di ignorare o rifiutare ma che ritorna ancora e ancora. È importante notare che la scimmia non agisce direttamente ma che la sua presenza precede sempre una tragedia. Questa ambiguità la rende ancora più terrificante, poiché non viene mai spiegato a fondo come funziona la sua maledizione o perché esiste. Ciò lascia il pubblico con la sensazione che il male non abbia bisogno di logica; è semplicemente lì.

Il protagonista, Hal Shelburn, è il centro emotivo della storia. Attraverso i suoi ricordi, comprendiamo che la scimmia lo perseguita fin dall’infanzia, collegandolo alla morte di persone a lui vicine. Hal porta con sé un costante senso di colpa, credendo di essere in qualche modo responsabile di queste tragedie semplicemente perché ha il giocattolo. Ciò lo consuma e lo isola, riflettendo un tema ricorrente nella storia: la lotta interiore tra il desiderio di proteggere le persone care e l’impotenza di fronte a forze al di fuori del suo controllo.

L’ambientazione della storia ne influenza il tono. La vecchia casa e la soffitta evocano un senso di isolamento e pericolo. La narrazione sfrutta questi spazi per intensificare il terrore psicologico. Il pozzo in cui Hal ha cercato di liberarsi della scimmia durante la sua infanzia è un simbolo di profondità insondabile, sia fisica che emotiva. Questi luoghi simboleggiano i tentativi di Hal di superare la sua paura e il suo passato, sebbene la storia mostri che questi sforzi sono vani. La scimmia trova sempre la strada per tornare indietro, il che sottolinea l’idea dell’inevitabile. A differenza di altre storie, in cui il cattivo è una persona o una creatura che agisce direttamente, qui il male è passivo ma implacabile. Ciò rende la storia più inquietante perché costringe i personaggi e chi guarda a riflettere sul proprio rapporto con il destino e la tragedia. La storia suggerisce che il male non ha sempre una causa chiara, né può essere razionalizzato o controllato. Infine, è essenziale notare che The Monkey non parla solo di paura o tragedia, ma anche di redenzione. Hal prende una decisione coraggiosa alla fine della storia: affrontare il suo più grande terrore per proteggere suo figlio. Questo aspetto rende la storia più di un semplice racconto dell’orrore: è anche un’esplorazione del coraggio umano di fronte all’incomprensibile.

In sala.

Di Ilaria Franciotti.

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