Attraverso una dimensione squisitamente ludica il regista bhutanese Pawo Choyning Dorji mette in scena una serie di intrecci narrativi convergenti che, grazie soprattutto ad un’ottima sceneggiatura, riescono sia a divertire in modo genuino (differentemente dal tipo di comicità demenziale a cui siamo abituati) che ad aprire uno spazio di riflessione su molteplici temi. The Monk and the Gun (trailer) si basa su un evento storico realmente accaduto: dopo più di un secolo di monarchia nel 2006 il re del Bhutan, dopo aver messo in atto un piano volto a modernizzare il paese con varie riforme, tra cui favorire l’avvento della televisione, decide di abdicare a favore della democrazia.
Proprio agganciandosi a questo evento, Dorij ci traporta nel piccolo villaggio rurale Ura, già messo sottosopra per l’arrivo delle televisioni nelle case. Nelle primissime scene vediamo il Lama apprendere dalla radio i sostanziali cambiamenti che stanno avvenendo nel Bhutan, il maestro spirituale decide risolutamente di abbandonare il ritiro spirituale ben due anni prima di quanto aveva previsto e ordina al suo monaco di fiducia Tashi (Tandin Wangchuk) di procuragli due armi da fuoco per “mettere tutto al proprio posto” durante un rituale che avverrà pochi giorni dopo. La richiesta insolita e vagamente inquietante tuttavia non sembra turbare minimamente il giovane, che si mette prontamente in cammino.
Contemporaneamente, nel villaggio vengono effettuate delle simulazioni di voto affiancate da vere e proprie “lezioni” per imparare a votare, tramite dei partiti immaginari divisi per colore. I partiti vengono presentati in questo modo: uno promuove la libertà e l’uguaglianza, il secondo, al contrario, promuove lo sviluppo industriale, e l’ultimo è un partito conservatore; una semplificazione fin troppo sostanziale che risulta comunque difficilmente comprensibile per chi confida ancora nella monarchia e trova inutile esprimere un’opinione a riguardo. La televisione diventa un potente mezzo per promuovere le elezioni, attraverso il primo canale ufficiale del paese che riproduce a intervalli regolari spot come «Se amate il vostro Paese andate a votare» e dove le campagne elettorali dei candidati appaiono sottoforma di messaggi promozionali. Un mezzo che porta anche una forte ondata di “americanità” con la messa in onda di programmi quali MTV e i film di James Bond nei panni di 007, fruiti sorseggiando una coca-cola o masticando un chewing gum.
Il compito di Tashi risulta essere molto difficile, difatti nessuno a Ura ha mai neanche visto un’arma, finché non viene indirizzato a casa di un anziano signore che ha casualmente ritrovato un fucile, appartenuto all’esercito americano, all’interno del suo magazzino. A presentarsi per primi però sono Benji (Tandin Sonam) e l’americano Mr. Ron (Harry Einhorn), quest’ultimo è un collezionista d’armi e, riconoscendo l’importanza del fucile, è disposto a pagare una cifra esorbitante. La somma però viene rifiutata dal vecchio che, nonostante abbia dei debiti da risanare, trova l’offerta troppo generosa per poterla accettare; una situazione decisamente surreale vista dagli occhi di un occidentale che diventerà ancora più bizzarra con l’arrivo del monaco. Difatti, mentre Benji e Ron sono andati a prelevare, esultando per la buona riuscita dell’acquisto, il vecchio decide invece di servire il Lama offrendo a Tashi il fucile e rifiutando anche il poco denaro che il monaco era disposto a dargli.
Si avvicina il giorno della luna piena, ovvero quello indicato dal Lama per compiere il rituale che coincide con la simulazione delle elezioni. Ron e Benji riescono a convincere il monaco a cedere loro il fucile in cambio di due armi molto più potenti, ovvero quelle presenti nel film 007, viste da Tashi in televisione. Nel mentre le elezioni hanno portato discordia tra i cittadini; molto potente è la scena in cui vengono simulate persino le opposizioni tra i differenti sostenitori dei partiti in una buffa imitazione di agitazioni sociali creata ad hoc. Nel vedere, seppur in modo fittizio, un popolo raffigurato come unito e pacifico gridarsi contro, c’è da chiedersi se, effettivamente, la democrazia sia o meno sinonimo di civiltà e progresso. Un quesito che continua ad emergere in varie occasioni e che spesso viene messo a tacere, sottolineando come la democrazia rappresenti un dono e come molti paesi stiano lottando per arrivare allo stesso risultato che il Bhutan ha ottenuto pacificamente.
A questa affermazione, riproposta più volte da una rappresentante dello stato venuta da fuori per monitorare le elezioni simulate, una giovane donna (Deki Lhamo) si oppone quietamente rispondendo con semplicità che se gli abitanti del Bhutan non hanno mai lottato per la democrazia forse il motivo è proprio che non è così necessaria per loro. Un osservazione inespugnabile che appare corretta quando, conteggiando i voti, i funzionari si renderanno conto che la maggior parte degli abitanti del villaggio ha votato per un partito solo per via del colore a lui assegnato, il giallo, ovvero il colore che simboleggiava il re.
Il rituale ha inizio poco dopo, ogni personaggio di cui abbiamo seguito la vicenda si trova riunito insieme agli altri ad assistere ad un’inaspettata benedizione, a cui tutti, volenti o meno, partecipano attivamente. In conclusione si può definire The Monk and the Gun come un film adatto a tutti, un evento raro, vista l’attuale differenziazione dei prodotti audiovisivi in base alle fasce di audience.