25 novembre 1976, Winterland Ballroom di San Francisco. Giorno del Ringraziamento. La Band si appresta a salire sul palco per l’ultima volta, per un’ultima grande festa, intitolata The Last Waltz (trailer). Le porte della celebre sala da ballo si apriranno nel pomeriggio. Prima del main event della giornata si alterneranno sul palco vari poeti per delle letture, poi verrà offerta una porzione di tacchino per gli astanti (come da tradizione) e infine, per più di quattro ore, il gruppo americano infiammerà per un’ultima volta il cuore dei suoi fan con una setlist infinita, intramezzata da un paio di jam session e contornata dalla presenza di varie guest star (o amici di viaggio).
Per capire la valenza della band e di questo evento partiamo da un nome e una data che ci faciliteranno di molto il lavoro: Bob Dylan, 22 marzo 1965. Il più celebre e importante musicista della storia recente quel giorno donava al pubblico Bringing It All Back Home, album il cui lato A lasciava presagire qualcosa di alieno per gli ascoltatori della prima ora. Qualcosa di “elettrico” penetrava le composizioni di Dylan, mentre l’album si concludeva con un’enigmatica It’s All Over Now, Baby Blue. Cosa stava finendo per Dylan? Un amore, come lascia intendere il testo, o una fase della sua carriera?
Salto in avanti: 25 luglio 1965, Newport Folk Festival. Bob Dylan ci fornisce finalmente una risposta. Al celebre festival di musica folk, dove non entravano altro che strumenti acustici, l’artista di Duluth decide di sorprendere tutti: Like a Rolling Stone e strumenti elettrici. Infuria la controversia: “Dylan goes electric!”. Da qui il resto è storia: Highway 61 Revisited, Blonde on Blonde…
Ciò che ci interessa però ruota attorno ai tour, alle session per le registrazioni degli album (The Basement Tapes) successivi. A ciò che contribuisce ad accrescere la fama di Dylan. Perché a supportare il musicista nei tour successivi alla “svolta elettrica” ci sono proprio quei cinque ragazzi che si apprestano a salire sul palco della Winterland Ballroom per l’ultima volta, insieme: Rick Danko, Levon Helm, Garth Hudson, Richard Manuel e Robbie Robertson. Insomma, la Band.
I cinque, di origine canadese escluso Helm (originario dell’Arkansas), debuttano sul finire degli anni Cinquanta come backing band di Ronnie Hawkins, star canadese, come The Hawks fino al 1963. Due anni di pausa, incontri in giro per gli Stati Uniti, e poi Dylan. Nel 1966 le loro strade si incontrano e il gruppo sceglie questo nome così unico, ancor di più se consideriamo la fantasia di quegli anni (13th Floor Elevator, Jefferson Airplane ecc.). Ma forse anche il più adatto, vista la natura di supporto del gruppo e l’abilità con cui sapevano reinterpretare la tradizione folk, rock e country, come dimostreranno nell’esordio datato 1968 Music from Big Pink, contenente veri e propri capolavori come The Weight.
La formazione conosce una notorietà in patria sempre crescente, accompagnata ad un tour, nonostante gli impegni in studio, inarrestabile. In lungo e in largo i cinque percorrono gli Stati Uniti, con e senza Dylan. Il 1976 è l’anno in cui dicono basta. D’altronde “[The road] It’s a goddamn impossible way of life” commenterà Robbie Robertson. E per farlo scelgono proprio San Francisco e la Winterland Ballroom, prima venue dove la Band si esibisce in solitaria.
Per un’occasione del genere, per questo ultimo Valzer, la sola registrazione audio non poteva di certo bastare. Ed è qui che interviene Martin Scorsese, conosciuto da Robertson e il resto della band a Woodstock nel 1969, durante lo svolgimento del celebre festival. Guarda caso lo stesso Scorsese poi si occuperà del montaggio di Woodstock, documentario collettivo dedicato a quegli storici tre giorni. Così come si occuperà, parallelamente alla realizzazione dei suoi film di finzione, del montaggio di altri “rockumentary”: Medicine Ball Caravan e Elvis on Tour. Per Robertson, Scorsese non può che essere la prima scelta, ma nessuno si sarebbe di certo aspettato questo risultato.
Cosa erano i rockumentary prima di Scorsese? In poche parole: immediatezza e coinvolgimento. Il concerto è uno spettacolo che fino a quel momento doveva essere ripreso per com’era, in rispetto del suffisso (-umentary), in piena aderenza ai codici del documentario. L’idea per gli autori fino all’arrivo dell’ultimo Valzer orchestrato da Scorsese era semplice: restituire agli spettatori quell’alchimia che si veniva a creare tra pubblico e artista. Quindi focalizzazione sui microfoni rivolti all’audience, split-screen per simulare anche il movimento dell’occhio a scandagliare la scenografia allestita dal gruppo e gli strumenti in azione. Trasparenza e vitalità.
The Last Waltz non è il classico film concerto, almeno per l’epoca. Dove c’erano tracce di cinema verità, il regista arriva e sposta un po’ la prospettiva. Non c’è più attenzione sul pubblico, tutto è rivolto alla mise en scène. Scorsese studia lo spazio alla perfezione e on stage tutto appare come preparato. Primo indizio: la scenografia della Traviata diventa la scenografia del gruppo per il concerto, qualcosa che si rivolge all’occhio più dello spettatore della sala cinematografica.
Ci sono anche degli intermezzi, interviste ai membri del gruppo – riguardanti aneddoti della loro carriera e coinvolgenti la figura del regista – e altre performance in studio, in quello che appare come un teatro di posa (Scorsese sta girando un documentario o un film?). Per non parlare della prima canzone eseguita nel film, Don’t Do It, che nella realtà chiuse il concerto e sulla quale scorrono i titoli di testa del film.
Di cosa vuole parlarci allora Scorsese? Il discorso, anche grazie alle sopracitate performance in studio, tra le quali viene inclusa anche The Last Waltz Main Theme – composizione realizzata da Robertson per il l’evento e il film, posta in chiusura -, sembra chiaro. Dove la Band saluta il proprio pubblico, Scorsese intravede la scrittura della Storia, la consegna al mito di un gruppo che ha segnato gli anni Sessanta e Settanta della musica statunitense.
Fotografia e regia infatti isolano la musica, si concentrano sul movimento delle mani sui vari strumenti, sui volti, soprattutto su quelli che si succedono sul palco. Delle esibizioni scelte per il film, dalla durata complessiva di due ore circa mentre il concerto supera abbondantemente le quattro, non a caso vediamo la maggior parte di quelle dove ci sono degli ospiti. Ronnie Hawkins, Dr. John, Van Morrison, Joni Mitchell, Neil Young, Bob Dylan e molti altri. Quasi ogni momento per Scorsese rappresentasse un capitolo per un immaginario libro sulla musica di quegli anni.
Un libro che avrebbe poi necessitato di un finale con la riunione di questa grande famiglia, per l’esibizione di I Shall Be Released. Come a dire: ”Questo è ciò che abbiamo rappresentato, è ora di salutarci”. Ancora una volta, la canzone non chiuse il concerto, che poi proseguirà con due jam session e la sopracitata Don’t Do It. Tutto, però, senza dimenticare il pubblico della sala, quello per Scorsese da intrattenere per altre e infinite volte. Proprio come recita il primo cartellone visibile a schermo, forse una delle dichiarazioni d’amore più bella mai fatta al cinema e alla musica: “This film should be played loud!”.