Sin dalla sua presentazione, la quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma si è tinta delle note dell’ultimo film di Martin Scorsese, The Irishman (trailer). Presentato in anteprima mondiale al New York Film Festival di settembre, questo corposo lavoro (210 minuti) è una incredibile “mob opera” che ripercorre tutta la filmografia del regista statunitense. Un’epopea criminale graffiante, ironica, aspra che si dipana in quattro epoche differenti e narra le vere e delittuose gesta di Frank Sheeran (Robert De Niro) seguendone il racconto che egli ne fa nel libro-confessione di Charles Brandt, I Heard You Paint Houses. Un film che il regista ha girato per se stesso e per i “suoi amici” che con lui hanno partecipato alla realizzazione di un progetto nato quattro anni fa, sotto l’ala di una Netflix in cerca di nobilitazione culturale e che non ha esitato nello stanziare il colossale budget necessario alla produzione (oltre 150 milioni).
Sopra ogni altra cosa The Irishman è però un discorso melanconico, venato di una mortalità piegata sotto il giogo dello scorrere del tempo e dell’irreversibilità delle proprie azioni. Inutile pentirsi dei peccati, cercare di percepire il rimorso che è già componente di una condanna insita nelle conseguenze di ciò che è stato fatto e non può essere alterato. Frank Sheeran è il corpo im-mobile di un film lungo quarant’anni dove lui spara, uccide, butta l’arma per poi ripetere tutto daccapo, mentre attorno a lui la Storia con la s maiuscola batte i colpi del suo incedere perenne (WW2, baia dei porci, Kennedy, Watergate, Kosovo). Il sicario irlandese al soldo di Russell Bufalino (un Joe Pesci in versione zen che si aggrega e riduce su se stesso e ci regala la performance più valida del film) procede dritto nella sua discesa criminale, senza dubbi, senza rimpianti, senza esitazione. Un soldato amorale che esegue ordini e basta, e che Scorsese tratta come un oggetto sospeso né giudicante né giudicato.
The Irishman è un’opera corale che avvolge una tipologia di cinema ben precisa, quella del gangsterismo e della mafia italo-americana (ci sono grandi strizzate d’occhio a noi dello stivale), e che si pone a senile ultimo tassello di un genere marchio di alcuni dei capolavori scorsesiani. L’intera prima sezione del film è come vedere uno Scorsese ricatapultato tra Mean Streets e Goodfellas, tra ricatti, omicidi e regolamenti di conti raccontati sullo schermo con una firma classica che abbiamo imparato a conoscere molto bene. Sembra davvero di stare ad assistere ad un tuffo nel passato nella filmografia del regista newyorkese, dove i volti della società malavitosa (nel girato c’è anche un Harvey Keitel che appare pochissimo ma con incredibile spessore) gestiscono i loro loschi affari in una riproposizione di dinamiche e stilemi già noti, seppur sempre cinematograficamente impeccabili.
E’ arrivando alla sezione centrale che la pellicola cambia tono. Il ritmo incandescente incanalato nella prima parte viene raffreddato, focalizzando la totale attenzione di The Irishman esclusivamente sulla costruzione del rapporto di Sheeran con l’ambigua figura del leggendario sindacalista Jim Hoffa (Al Pacino). Se da un lato questo secondo atto è quello che si rivela più ballerino, a tratti ridondante e complicato da digerire, è anche quello dove Scorsese si eclissa lentamente lasciando che ad emergere siano le maestose stature di due colonne come De Niro e Pacino. Nel differente stile recitativo, con un Hoffa esplosivo, esagerato, e uno Sheeran piuttosto compassato, i due attori trovano la chiave in un dialogo all’incastro in grado di donare momenti di qualità che sono più che altro orpelli lì dove la sceneggiatura di Steven Zaillian sembra scivolare via lateralmente rispetto al binario principale.
Giunge ad un certo punto un silenzio viscerale (e sì, c’è anche un po’ di Silence), dove l’aria si fa stretta in gola e Scorsese sale nuovamente in cattedra quando aggiunge rughe sui volti dei suoi interpreti (ricordiamo l’importante e controverso lavoro di ringiovanimento fisico ad opera della Industrial Light & Magic). Il terzo atto si porta appresso un nuovo crimine di cui macchiarsi, un nodo nelle viscere di chi sa di non potersi esimere dall’epilogo di una storia che ha contribuito a creare e dipingere di nero pesto (e rosso sangue sulle pareti). Il regista sottrae e sottrae, dragando via dal film la linfa vitale di narrazione e personaggi, lasciando scoperta ossatura e nervi di ombre dai capelli grigi e senza più anima (che forse dopotutto non hanno mai avuto). Questi agenti del male sembrano non venire mai condannati o apertamente esposti alla corrosività delle loro azioni, nemmeno nella resa dei conti finale dove li troviamo anziani e riuniti a giocare a bocce. Quello che però non va mai dimenticato, nemmeno per un attimo, è chi è che fa il racconto.
La chiusura di The Irishman vale da sola il prezzo del biglietto (o di un abbonamento…), sapiente nel rendersi aderente ad uno sguardo fuori dalla novella. In una delle inquadrature più spietate del cinema contemporaneo, Scorsese sospende il peccato nella penombra di una stanza dove “non c’è più nessuno”. A rimanere è solo una massa amorfa, dannata per sempre nell’incompiutezza del limbo.
The Irishman sarà distribuito nelle sale dal 4 al 6 novembre grazie alla Cineteca di Bologna, poi uscirà in streaming su Netflix a partire dal 27 novembre.