Risate. Gag. Continui imprevisti: sempre di più, sempre inaspettati. Appena risolto un problema, eccone subito un altro, con nuove risate, nuove gag. Il tutto condito da una raffica di citazioni pop, ma anche più di nicchia, trasformate però, quasi “zizekianamente”, in qualcosa di appetibile perfino per il grande pubblico di massa. Una formula, quest’ultima, che permette di far passare concetti universali, archetipici e fondamentali, in modo semplice e leggero. Con un po’ di zucchero, d’altronde, anche la pillola più amara scende giù. Ed è su questo meccanismo che si poggia l’intera struttura di The Good Place: sitcom creata da Michael Schur (produttore esecutivo di serie quali The Office; Brooklyn Nine-Nine e Master of None), arrivata ormai, con la quarta stagione (qui la recensione della terza), al termine della sua corsa (trailer).
Accompagnato da Eleonor (Kristen Bell; Veronica Mars e doppiatrice in Frozen e Zootropolis), Chidi (William J. Harper; Midsommar), Tahani (Jameela Jamil), Jason (Manny Jacinto), Michael (Ted Danson) e Janet (D’Arcy Carden), lo spettatore si ritrova, nel corso dei vari capitoli, a dover superare diverse complicazioni, la cui risoluzione funge sempre da miccia per ulteriori problematiche con le quali i protagonisti dovranno scontrarsi al fine di crescere e migliorarsi. In ciò, The Good Place dimostra di essere una macchina ben oliata e infatti incorpora questo suo funzionamento macrostrutturale anche all’interno della microstruttura della singola stagione. La quarta stagione, infatti, s’immette direttamente dentro questa logica di continui rimandi e cliché, tuttavia, ne diminuisce paradossalmente la portata.
Nello scorrere le varie puntate, tra le risate, le gag, i continui imprevisti e la raffica di citazioni, il pubblico inizia a rendersi più consapevole di questo meccanismo infinito. L’impressione ottenuta è dunque di una trottola che non smette mai di girare, creando continui giochi concentrici forse un po’ campati per aria. Soprattutto in prossimità del terzo macrodilemma, lo spettatore inizia a storcere involontariamente e leggermente il proprio naso, come davanti a una corda troppo tirata. È qui, però, che The Good Place sfodera la sua capacità migliore: far mandare giù anche la pillola più amara.
Appena il pubblico sembra stancarsi, si trova improvvisamente davanti a una realtà alla quale non sembra essere pronto e di cui si sente anche in parte colpevole, dopo quella involontaria stortura di naso. Messo di fronte a una problematica scontata e stiracchiata, questa, imprevedibilmente, si risolve subito. Arriva così la consapevolezza per gli spettatori e i protagonisti che ormai il treno è giunto alla sua ultima corsa, a quella risoluzione definitiva tanto agognata. E se l’intero concept di The Good Place è legato al confronto tra l’uomo e la morte, nell’ultimo episodio la parola “fine” assume il suo massimo valore.
Cambiando tono, ma non rinunciando al sorriso, con questa quarta stagione Michael Schur trova un perfetto modo per spiegare la natura effimera dell’essere umano e dei suoi desideri, congiungendo i vari tasselli raccolti nel corso dei vari episodi. Tramite Eleonor, che continua a tentare, quasi fino all’ultimo, di scappare a questa profonda verità, il pubblico si trova a tirare le somme, rendendosi conto, come la stessa protagonista, di non essere pronto all’addio, anche se questo è un passaggio necessario. Con un po’ di zucchero, Schur culla gli spettatori verso una crescita, resa meno amara dal continuo gioco ironico d’imprevisti a cui li sottopone.
Giungendo alla fine di quest’articolo, la quarta stagione di The Good Place, grazie alla fedeltà verso i propri meccanismi e alla modestia con cui si pone nei confronti del suo pubblico, riesce a rendere trascurabile qualsiasi pecca, facendo immedesimare gli spettatori sia nei suoi personaggi, che nell’intero portato filosofico della serie. Così, con quella stessa saggezza assunta da Eleonor, malinconici, mentre leggiamo per l’ultima volta i titoli di coda, ci troviamo a immaginare un’onda nell’oceano e a comprendere che essa “è solo un altro modo in cui l’acqua esprime se stessa per un po’” e che alla fine non solo ritorna “al mare da dove è venuta”, ma ritorna esattamente “dove dovrebbe essere”. Quindi, per concludere, alla sua ultima fermata, The Good Place non rinuncia ai propri stilemi, ma se ne fa forza, rendendo ancora più profondo e toccante il proprio concept.