Reduce dal Leone d’oro dello scorso anno per All the Beauty and the Bloodshed (Laura Poitras), di cui ha curato la cinematografia, Robert Kolodny fa il suo ingresso a Venezia nelle vesti di regista con The Featherweight. Guardando i primi minuti del film si ha la buffa sensazione di assistere a una strana trasposizione di Toro scatenato di Scorsese in versione mockumentary. Il film racconta infatti una parte della vita del pugile Willie Pep, campione del mondo dei pesi piuma negli anni Quaranta e per molti anni detentore del record di incontri disputati (più di duecento).
Possiamo dunque parlare di un inizio in medias res: il campione riflette sulla sconfitta che ha messo fine alla sua brillante carriera e pianifica il suo ritorno sul ring, cercando di conciliare a questa sua ambizione quella più intima di coltivare il rapporto con la giovane moglie Linda (Ruby Wolf) e con il figlio Billy (Keir Gilchrist), nato dal matrimonio con la precedente moglie.
La formidabile interpretazione di James Madio ci restituisce un’immagine più che nitida del minutissimo italoamericano che molto prima di Muhammad Alì fece la storia della boxe. La soluzione adottata da Kolodny, da vero appassionato di non-fiction (come lui stesso si dichiara alla fine della proiezione), è quella del finto documentario: la camera segue con minuzia e a tratti ostinatezza i movimenti del pugile e quelli della sua famiglia, entrando con presunzione nelle loro vite.
Il patto stretto tra Willie Pep e i suoi intervistatori era infatti quello di raccontare a che punto della sua vita si trovasse, non quello di entrare nella sua vita privata. Tuttavia la troupe eccede, indaga, si sofferma con gli occhi di uno spettatore qualsiasi che vuole avere uno scorcio sulla vita quotidiana di un campione, sulle sue relazioni e il suo muoversi nel mondo. Per questa tracotanza saremo tutti puniti da Pep con una brusca interruzione delle riprese. Laddove il film stava prendendo una piega drammatica, Kolodny affida a Pep il compito di riportarlo sui binari del documentario, che non è mai troppo profondo né voyeuristico rispetto a ciò che racconta.
Lo spettatore si sente improvvisamente di troppo e spiazzato ma l’espediente è geniale e dimostra una grande abilità nell’utilizzo del linguaggio cinematografico. In generale c’è una certa dose di consapevolezza nell’uso del mezzo documentaristico da parte di Kolodny, a cui si affianca l’ottimo lavoro di James Madio sul personaggio di Willie Pep. Non si può certo celebrare allo stesso modo la sceneggiatura, che a tratti presenta qualche battuta di troppo e risulta eccessivamente didascalica, e l’interpretazione di Ruby Wolf, alle prime armi (questo è il suo primo film) e un po’ impacciata davanti alla camera. Con un background da direttore della fotografia questi sembrano però i risultati acerbi di un investimento da parte di Kolodny nel campo della regia che nel complesso lascia piacevolmente sorpresi.