Per festeggiare i quarant’anni dall’uscita di The Elephant Man (qui il trailer) di David Lynch, è doveroso metterne in luce non solo le tematiche ma anche le peculiarità stilistiche: le referenze artistiche e in particolare i riferimenti all’Espressionismo tedesco.
Prima di avventurarci nel panorama dei contributi artistici nel film e della corrente estetica più importante della Germania degli anni ’10-’20, è opportuno spendere qualche parola sul cinema di David Lynch.
Maurizio De Benedictis definisce le sue storie come un insieme di «[…] trasmutazioni identitarie, di delitti che maciullano il corpo umano per rigenerarlo in altre dimensioni (del racconto), di rapporti col doppio – o multiplo – che smarriscono il bandolo della narrazione e sbalestrano lo spettatore tra riconoscimento (l’antica agnizione) e caos»[1].
Nella fattispecie, The Elephant Man è un film sulla diversità; sull’accettazione e sull’amore per l’altro a prescindere dal suo aspetto; sull’ipocrisia della classe borghese vittoriana che ostenta bontà, ma è piena di pregiudizi internamente. Ma è anche un film che elogia il teatro e l’arte in tutta la loro magnificenza come strumenti di ribalta per un “mostro” che solo in quel luoghi può trovare l’evasione-purificazione dal male esterno.
Nel teatro l’arte è padrona e solo lì John può trovare appagamento e soprattutto riconoscimento; emblematica per definire l’importanza del teatro nel film, è la scena in cui lui e la signora Kendal (Anne Bancroft) recitano la tragedia di Romeo e Giulietta.
Joseph/John Merrick non è però solo amante del teatro, ma è anche un poeta e un appassionato di modellismo architettonico: infatti la Cattedrale di St. Paul che realizza stando chiuso in una “prigione” – dalla quale ha una limitata visione del mondo esterno[2] -, se non per una finestra, che non può non farci pensare alla siepe dell’Infinito di Leopardi, tanto che della Cattedrale se ne vedono solamente i pinnacoli, è rivelatrice della sua sensibilità artistica e della sua immaginazione.
Come scritto in precedenza, a questi richiami si aggiungo poi diverse influenze espressioniste.
Sicuramente le atmosfere cupe e gotiche rientrano a pieno diritto tra i caratteri espressionisti, così come le espressioni grottesche e angosciate di Bytes (Freddie Jones) e dello stesso John/Joseph Merrick. Dal punto di vista del colore, il bianco e nero del film non solo drammatizza e rende più gravoso l’aspetto dei temi trattati, ma è anche un altro elemento che non può non riportarci ai film degli anni ’20, dal sapore molto vicino a quello dei quadri di Kirchner e Munch.
Come scrive il libro Storia del cinema, un’introduzione, mentre nel cinema (ma non solo) impressionista l’importanza fondamentale era nell’utilizzo artistico della macchina da presa, nel cinema espressionista era la messa in scena: la scenografia e il corpo degli attori dovevano divenire un organismo vivente dalla forte fascinazione visiva[3]. Oltre ad una scena deformata, una simmetria ambientale (si veda la sala da pranzo dell’ospedale dove Merrick viene ricoverato), il criterio dell’esagerazione era emblematizzato dalle espressioni degli attori, rese attraverso i primi piani, e dalla recitazione antinaturalistica (anti stanislaskiana).
John Merrick e Bytes incarnano alla perfezione tutte queste caratteristiche essendo uno mostruoso nell’aspetto, ma buono nell’animo; l’altro non gradevole nell’aspetto ma anche deformato nell’animo.
Per concludere, è chiaro come nel film di Lynch ci siano referenze provenienti sia dalla letterature romantica, come il Frankenstein di Mary Shelley, sia dal cinema espressionista come i film di Wiene, Murnau e Fritz Lang.
Post-Scriptum
I nani (personaggi secondari, ma determinanti per far fuggire Merrick dalla gabbia dove lo ha rinchiuso Bytes), rappresentato delle figure ambigue ma spesso positive. Nella storia del cinema li vediamo in film come Freaks (Todd Browning, 1932); nella saghe-film di La leggenda dei Nibelunghi, Le cronache di Narnia e Il signore degli anelli, in tutta la loro simpatia e coraggio; in situazioni più truci come nel Joker di Todd Philips e in situazioni più gioiose (e artistiche), come in The Greatest Showman (Michael Gracey, 2017).
[1] Maurizio De Benedictis, Cine/Usa, storia del cinema statunitense e canadese, Panfocus, 2013, p. 377.
[2] Chiara metafora della sua incompletezza fisica.
[3] David Bordwell, Kristin Thomson, Storia del cinema- un’introduzione, The McGraw-Hill, Srl, Milano, 2010, cfr. pp. 67-69.