The Crown, la recensione della quarta stagione su Netflix

The Crown

Nella sinossi di uno spettacolo teatrale che nulla ha a che vedere con la serie di cui sto per parlare, Filippo Timi scrive: «Nessuna favola è mai perfetta come sembra, per quanto imbalsamata tu possa resistere dietro la bugia di un sorriso, la vita, carnosa, brutale, spietata, una notte magica di Natale busserà alla tua porta, e nulla sarà mai più come prima». Per quanto tale logline sia stata scritta per un’opera nettamente diversa, ciò che emerge da questa frase è di sicuro il fulcro centrale che avvolge anche la quarta stagione di The Crown (trailer) ed è persino, si potrebbe azzardare, ciò che la rende così squisitamente fotografica, intensa e “carnosa”, ovvero, materia viva e pulsante al di là dello stesso impianto seriale dentro cui si trova collocata; ma procediamo con ordine.

Nel corso di tre stagioni, la serie distribuita da Netflix ha sempre incorniciato la propria narrazione all’interno di un punto di vista ben preciso. Tra continuità e cambi di cast, tra la storia internazionale, britannica e scandalistica, l’universo freddo e preciso della regina Elisabetta è sempre stato preponderante dal punto di vista narrativo, ma anche visivo. La sovrana inglese è sempre stata centrale all’interno di un determinato stile: dalla fotografia alle stesse inquadrature, si incarnava perfettamente la mente lucida e distaccata di Elisabetta II. Il filo conduttore, per quanto a volte controverso, si è sempre incentrato su di lei e sul suo occhio, sul suo punto di vista, sul suo modo di agire e di vedere. Interessanti diventavano allora gli sprazzi in cui, nonostante la potenza distruttiva di quella forza fin troppo centripeta, la macchina da presa riusciva ad accogliere tutte quelle figure che le orbitavano attorno e che arrancavano come dei poveri cervi, regali, magnifici, ma stanchi e morenti.

Tra queste emergevano la principessa Margaret e il principe Carlo, entrambi vittime di una sofferenza simile, sebbene destinati a un finale totalmente diverso. Nel modo in cui però si dispiegavano la trama e l’impianto visivo, lo spettatore partecipava a queste parentesi, ne rimaneva particolarmente colpito, ma poi veniva condotto, quasi alienato, di nuovo verso la protagonista indiscussa della serie. Tale alienazione, tuttavia, creava nel pubblico solo un brivido, che veniva “normalizzato” quasi subito e che non sembrava dar vita a nessuna forza centrifuga, a nulla che potesse togliere l’attenzione dal punto di vista della regina Elisabetta. La quarta stagione decide di scardinare esattamente questo principio, allargando gli orizzonti e anche, potenzialmente, il proprio pubblico, arrivando a una potenza emozionale e attrazionale decisamente maggiore.

The Crown

Fin dalle prime immagini, la serie mostra il procedimento che attuerà nel corso delle dieci puntate: un procedimento metaforico, dove gli avvenimenti storici, la politica, Buckingham Palace, ovvero, tutto ciò che rende la favola “imbalsamata” e “preconfezionata”, hanno poca importanza in confronto a quel portato umano che, come una bomba, si prepara ad esplodere. Sofferenza, esclusione, incomprensione, rabbia. Queste le prime immagini e le prime parole della quarta stagione. Si parla della questione irlandese. Si parla indirettamente del principe Carlo, reietto e solo con il suo dolore, mentre tutti a tavola parlano di lui, senza neanche degnarsi di vederlo o di invitarlo. È esemplare che, in effetti, l’intera conversazione si svolga quando lui non è presente. Ciò fa diventare visivo un dialogo rischiosamente didascalico. Visivo in quanto mostra come, all’interno della famiglia reale, il parlare e il cercare soluzioni non prenda mai in considerazione l’essere umano e la carnalità delle sue emozioni, ma solo le pure convenzioni sociali.

L’intera potenza della quarta stagione, così, si costruisce con questa strategia narrativa, carica di metafore che mostrano la propria forza attraverso la fragilità di alcune immagini archetipiche. Immagini estremamente significative, anche se che a volte, forse, cadono in “spiegoni” inutili, che ne diminuiscono il valore stesso. L’esempio più lampante è il monologo di Carlo, interpretato da un magnetico Josh O’Connor (Emma), presente già dalla terza stagione, che dà la conclusione alla seconda puntata. In questo contesto diventa fondamentale la prima sequenza del film, quella che si svolge dopo la cornice storica, quella dove, tramite una dolce danza della macchina da presa, si insinua una giovane Diana mascherata, che si nasconde e al tempo stesso lascia trasparire la sua innocenza e la sua purezza. Una scena che lascia i brividi, non solo grazie all’accuratezza posta da Emma Corrin (impeccabile nella sua performance), che riesce a mimare nei minimi dettagli ogni sorriso, ogni piegamento di testa tipico di Lady Diana, ma anche per la stessa potenza formale. Una fotografia polverosa, da dei colori quasi pastello, tipici di una casa delle bambole, il fluire delle varie inquadrature, che si muovono sinuose quanto la protagonista stessa del loro sguardo: ciò che era chiaro già dal primo teaser diventa ancora più lampante.

The-Crown

La quarta stagione non si concentrerà più su Elisabetta II, ma su una delle figure che, nel ruotarle attorno, sono rimaste schiacciate, ovvero Lady Diana, forse la più colpita tra gli “ultimi”, tanto che lo stesso Carlo, per il quale si era costruito pian piano una forte empatia, diventa alla fine una sorta di antagonista dell’intera stagione. Questo procedimento di decentramento dalla sovrana, sebbene atipico all’interno di The Crown stessa, è quello che dà maggior appeal alla quarta stagione, che diventa in questo modo un ottimo prodotto anche al di fuori della serie.

Con la quarta stagione di The Crown Peter Morgan, showrunner dell’intero prodotto, fa un salto in avanti, superando la qualità già assunta nelle precedenti stagioni. Cambia focus della propria lente, lasciando però intatto il punto di vista, ovvero quello freddo della regina britannica. Infatti, lo spettatore, sperduto, solo e incompreso, come la giovane Lady Diana, si ritrova intrappolato in un meccanismo dove allo stesso tempo gli viene negato e dato troppo e niente. In una vorticosa bulimia emozionale, il pubblico viene scaraventato, così, dentro e fuori una favola.

Una favola che rivela tutte le crepe e le brutalità che si nascondono dietro i sorrisi e le apparenze di quella che alla fine si mostra, nella sua realtà più spietata, come un’ibseniana “casa di bambole”, dalla quale, già si sa, non si può uscire vincitori.

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