
“Umiliazione” è un termine chiave quando si parla di potere. La natura particolarmente frustrante del sentimento lo rende uno strumento fondamentale sia per lo slancio verso il potere dal basso che per il mantenimento dello stesso dall’alto. Se umiliati, desideriamo qualcosa che possa sbrogliare il gomitolo d’imbarazzo che si forma alla bocca dello stomaco. Siamo molto più propensi ad affidarci a chiunque prometta di ridarci le nostre dignità e autonomia perse.
Ma umiliare è anche il dispositivo prediletto del potere per chiudersi in se stesso e assicurarsi la propria durata nel tempo. È il modo più efficace di segnare il confine tra governanti e governati: la differenza tra i due viene percepita quasi come ontologica.
The Brutalist (trailer), dal punto di vista del suo protagonista László Tóth (Adrien Brody), è un’epica sull’umiliazione. László, sopravvissuto alla persecuzione degli ebrei in Ungheria, fugge dalla terra natia in cerca di sicurezza, affermazione, dignità. È la realtà dell’immigrazione durante il secondo dopo guerra per moltissime persone. E in quel periodo il faro che guidava questa ricerca non poteva che essere quello degli Stati Uniti: il periodo di grande ottimismo e prosperità che seguì il conflitto mondiale fu la culla dello sfavillante e universalmente perseguito sogno americano.
La sequenza iniziale del film è emblematica da questo punto di vista. László si muove con difficoltà e quasi al buio tra la gente stipata sulla nave, finché non emerge alla luce e si trova davanti una delle icone americane per antonomasia, la Statua della Libertà. Ma l’inquadratura ce la presenta al rovescio: un simbolo al contrario che indica, dunque, l’opposto di quello che solitamente sta a significare. Lady Liberty presagisce a László e a noi spettatori che le aspettative di rivalsa saranno presto disattese.

Il film, seguendo le vicende del suo protagonista, esporrà crudelmente la natura celata del sogno americano. Nella sua tesi, Chandra C. Gray definisce l’american dream come lo slancio per una mobilità verso l’alto (László sale verso il ponte dai livelli inferiori, per poi vedere la Statua), ovvero la speranza di vivere una vita più piena e ricca rispetto a chi ci ha preceduto. Al centro di questo concetto, sostiene, c’è l’individualismo: il fine ultimo del successo va raggiunto attraverso il duro lavoro individuale, e mantenuto e giustificato attraverso al conformità totale ai valori americani.
La prima realtà con cui László viene a contatto è quella del cugino Attila (Alessandro Nivola), immigrato negli USA già da tempo, e di sua moglie americana, Audrey (Emma Laird). Notiamo subito che Attila è stato costretto ad uniformarsi agli standard della nuova società borghese statunitense per partecipare ad una fetta del sogno americano. Ha intrapreso la gestione di un’impresa di mobili e per farla funzionare ha perso il suo accento, ha inglesizzato il suo cognome per l’insegna, inventandosi persino una conduzione famigliare (sostiene che i clienti siano più disposti a fidarsi in questa maniera) e ha sposato presto una “tipica” donna americana. Per Attila il perseguimento del sogno avviene al prezzo di nascondere la sua identità di immigrato e di straniero.
Nel suo articolo sul fallimento dell’american dream, William Winner sottolinea come, nonostante gli immigrati siano stati la linfa vitale del sogno americano persino in periodi di scetticismo interno, essi siano sistematicamente esclusi dal godere legalmente e socialmente dei suoi benefici. L’ottimismo intrinseco all’utopia, scrive Winner, è in contraddizione con la realtà dei fatti, in cui dipende tutto dalla famiglia e dalle condizioni in cui si nasce. E László viene umiliato anche dentro quella realtà che credeva familiare. Egli è troppo “Altro” e la sua dipendenza da sostanze alteranti non è conforme all’immagine di ordine e pulizia che la società vuole mantenere. La goccia che fa traboccare il vaso, non a caso, è il fiasco durante i lavori nella villa dei Van Buren. La loro famiglia rappresenta veramente l’esempio tipico del coronamento del sogno (vivono in una prosperità legittimata da una storia di affermazione individuale), e quando Harry Van Buren (Joe Alwyn) nega ad Attila e László il compenso per il lavoro svolto è allegoricamente anche un escluderli dal raggiungimento dello status a loro promesso. Attila, di conseguenza, esilia László al di fuori del suo nucleo familiare “americanizzato”: è un’umiliazione nell’umiliazione.

L’incontro con Lee Van Buren (Guy Pearce) sarà fatale per László da molti punti di vista. Il mecenate incarna tutti i lati del sogno americano. Per sua gentile concessione László può sperare di accedere ad un benessere superiore. Ma Van Buren senior, dopo averlo usato per costruire e ribadire la sua influenza e il suo status, si serve, in diversi modi ed istanze, dell’umiliazione per riaffermare l’inferiorità di László. Egli non può e non potrà mai essere considerato al pari dei Van Buren. D’altronde, allo svilimento pubblico di László, Zsófia e Erzsébet durante una cena importante nel cuore della tenuta Van Buren (in cui, tra l’altro, il denaro torna ad essere allegoria) era seguita la demarcazione tra “veri” americani e immigrati, segnata dalla sentenza di Harry Van Buren: «We tolerate you ». L’accettazione è qualcosa di totalmente condizionale.
Parallelamente all’incrinato sogno americano, The Brutalist fa emergere subdolamente un’altra promessa effimera, ad esso strettamente collegata. Nel suo articolo Israel’s American Dream, Yannick Giovanni Marshall definisce il Sionismo come “americanismo in un secondo momento storico”. Entrambi progettano la costruzione di una nazione, a scapito dei nativi sul suo suolo, basata sull’auspicio di creare un’entità-stato che soddisfi e rispecchi solo una società ristretta. Nel film la creazione dello stato di Israele viene inizialmente presentata attraverso la voce fuoricampo tratta da un notiziario: è il silenzioso emergere del secondo faro di affermazione e rivincita, il “sogno sionista” che diventerà altrettanto allettante di quello americano per molti nel dopoguerra e oltre.
Successivamente, il mito di Israele viene preso in causa in due momenti pregni di significato. Zsófia, la nipote di László, a cui era stata rubata la voce durante le continue umiliazioni subite in Ungheria, la ritrova parlando con parole altrui: quando annuncia a László e a Erzsébet la sua volontà di trasferirsi in Israele con il marito, lo fa attraverso frasi di sfumatura quasi propagandistica, che richiamano sentimenti collettivi di appartenenza piuttosto che la sua volontà intima e individuale.

In secondo luogo, dopo l’overdose di Erzsébet, che è l’ultima simbolica rottura dell’illusione, in cui il benessere offerto da un palliativo si rivela in tutta la sua precarietà (e pericolosità), lei, sdraiata su una branda in un corridoio d’ospedale, manifesta il desiderio di unirsi a Zsófia in Israele. Parlando degli Stati Uniti come un posto marcio, desidera trovare un luogo che possa far rifiorire lo spirito dopo le umiliazioni che il suo corpo e quello di László avevano ricevuto. Questo momento innesca la fine del film: viene suggellata la nascita di un altro movimento, anche qui verso l’alto, ovvero il raggiungimento del sogno sionista, e ufficializzata la morte del sogno americano, che non ha più illusioni da offrire.
La sequenza finale del film, visivamente discordante e di tono diverso rispetto al resto, è però rappresentativa di cosa comporta inseguire l’ennesimo miraggio. Nel suo Zionism from the standpoint of its victims, Edward Said traccia un collegamento esplicito tra Israele e le nazioni europee dominanti. Sostiene che Israele sia visto come un baluardo del “nobile e illuminato Occidente” proprio in mezzo alle nazioni del “degradato e indegno Oriente”: per essere ciò, è implicato il fatto che il Sionismo preveda un’importazione dei valori occidentali, e dunque di una logica di esclusione/inclusione in società sulla base di essi, speculare in particolar modo a quella della società degli Stati Uniti.
Alla Biennale di Architettura di Venezia l’opera di László viene confezionata in maniera consona alle dinamiche di autolegittimazione statunitense e sionista. Un montaggio con transizioni anni Ottanta è accompagnato dalla voce di Zsófia, diventata anch’essa incarnazione di un’utopia di stampo nazionalista, che dice che ciò che conta è la destinazione e non il viaggio: un’élite deve ignorare i pesanti costi che la sua formazione ha richiesto. László è ammutolito, ridotto ad un fantasma di se stesso mentre ciò avviene. La sua arte, ma in senso più ampio la sua persona, è diventata strumento per Van Buren e Zsófia, sogno americano e sogno sionista, che lo hanno privato della sua indipendenza per tenere in piedi le fondamenta di queste due illusioni separate ma complementari.
Fonti:
Gray, Chandra C., The post World War II era American dream home and its influence on the homes of today, Senior thesis in General Studies at Texas Tech University, 2000
Winner, William, “The Failure of the American Dream” Vulcan Historical Review Vol. 23, Article 10, https://digitalcommons.library.uab.edu/vulcan/vol23/iss2019/10, 2019
Marshall, Yannick Giovanni, Israel’s American Dream, Al Jazeera, 2024
Said, Edward W., “Zionism from the Standpoint of Its Victims” Social Text, no. 1, 1979