Bambole voodoo, pagliacci eccessivamente sorridenti, fantocci di pezza dalle cuciture sbilenche. Il cinema horror è pieno di oggetti inanimati solo all’apparenza innocui. Regali dell’ultimo momento, vecchi manufatti chiusi in soffitte dimenticate, o fondi di magazzino che siano, tutti nascono per dar sfogo al loro lato più malvagio non appena l’ultimo bagliore di luce del giorno lascia il posto all’oscurità.
Sono proprio una serie di oggetti inanimati ad affiancare i titoli di testa di The Boy di William Bell Brent, facendo da passe-partout alla storia narrata, mentre una triste sonata al pianoforte accompagna il viaggio in auto della protagonista, ancora ignara di ciò che l’attende. Lei è Lauren Cohan (la Maggie di The Walking Dead) – qui nelle vesti di Greta, una ragazza del Montana in fuga da un passato travagliato. Ingaggiata dagli Heelshire come baby sitter, la giovane approda in una grigia villa goticheggiante in mezzo alla lugubre campagna inglese. Il suo compito è quello di prendersi cura di Brahms, il figlio dei due coniugi, mentre loro sbrigano misteriose faccende fuori città. Tutto più o meno normale, se non fosse che Brahms è in realtà una bambola di porcellana che gli Heelshire trattano come un bambino in carne e ossa. La risata nervosa di Greta al suo primo incontro con Brahms sancisce la premessa perturbante del film. Il suo incubo ha inizio, non siamo sicuri di poter dire lo stesso del nostro.
Dal surviving horror Stay Alive al meno innovativo film sui lupi mannari Le metamorfosi del male, passando per l’exorcism movie L’altra faccia del diavolo, il regista William Brent Bell ha dimostrato sin dagli esordi, una predilezione per il terrore. Con The Boy il cerchio delle sottocategorie del genere da sperimentare si allarga, permettendo al regista di ricalcarne uno degli stilemi narrativi più apprezzati, quello delle bambole infernali. Vestito come un piccolo lord, Brahms ha di fatto sempre lo stesso malinconico e inquietante sguardo. Che sieda composto a tavola o se ne stia afflosciato su una sedia a dondolo, le ombre che si scagliano sul suo pallido volto, lo rendono vivo nella sua esanimità. Così da farlo sembrare innocente, quando gli effetti personali di Greta scompaiono misteriosamente, arrabbiato allorché la ragazza trasgredisce una ad una le dieci regole impostegli e addirittura compiaciuto, quando le sue adorate arie mozartiane rimbombano per casa a volume spropositato. Merito di un buon lavoro fotografico di Daniel Pearl – Non aprite quella porta (anno 1974) e remake dello stesso (2003) – che tuttavia stenta ad avere un riscontro anche sul piano narrativo, dove la storia è vittima di una suspense squilibrata dettata da una sceneggiatura troppo frettolosa, che fa cadere nel baratro l’attenzione dello spettatore. Nessun salto di paura, solo sonori sbadigli da controllare. Allo stesso modo sfuma l’effetto dell’elettrizzante colonna sonora sviluppata da Bear McCreary, al momento uno dei compositori più richiesti nel circuito thriller-horror (The Walking Dead, 10 Cloverfiel Lane). Resoconto dopo la visione, molti interrogativi, pochi brividi, nostalgia del buon vecchio Chucky.
Angela Santomassimo