Tre regole. Regola 1: attacca, attacca, attacca. Regola 2: non ammettere niente, nega ogni cosa. Ed infine, regola 3: dichiara vittoria e non ammettere mai la sconfitta. La Bibbia di Donald Trump è tutta qui, e The Apprentice – Alle origini di Trump (trailer), il nuovo film del regista iraniano-danese Ali Abbasi, ce la racconta in quello che, più che essere biopic sul politico in tempo di elezioni, è una vigorosa ricostruzione dello spirito americano che l’attuale candidato alla presidenza degli Stati Uniti ha incarnato nella sua ascesa al potere.
Abbasi, ma soprattutto il giornalista Gabriel Sherman alla sceneggiatura, scelgono di mostrarci anche il Trump meno conosciuto, quello precedente alla ribalta e al clamore mediatico che lo circonda da diversi decenni, approfondendo insicurezze, contraddizioni e ambiguità che una figura così sfaccettata (solo all’apparenza maledettamente semplice) si porta dietro. Quasi non riuscendo però a ritrarsi dall’iconicità irresistibile della sua figura fisica, replicata, smontata, diventata maschera e quindi parodia di sé stessa, The Apprentice finisce per raccontarci poi come si costruisce quella figura, tornando alla superficie dell’immagine tipica e quasi simulacrale di Trump.
Il film copre un arco temporale che più o meno va dagli anni Settanta agli anni Ottanta, il periodo in cui il rampollo della famiglia Trump (un bravissimo e mimetico Sebastian Stan) diventa ricco magnate del mercato immobiliare, imparando le regole del gioco grazie agli insegnamenti del pesce grosso dell’establishment statunitense Roy Cohn (Jeremy Strong). Questo percorso di formazione, che non affronta direttamente – per fortuna – le vicende politiche dell’imprenditore, è profondamente radicato nella società in cui germina, come è ben chiaro dall’incipit fulminante. Inizia significativamente con un famoso discorso di Richard Nixon dopo lo scandalo del Watergate, a collegare la sfera politica e quella dell’attualità del tempo con la “nascita” del fenomeno Trump. Ma Trump, che politico non nasce, emerge in scena solo successivamente, in modo improvviso e scatenato, nella New York trafficata dei tombini fumanti alla Taxi Driver e con il sottofondo selvaggio di una musica rock.
La scelta migliore di Abbasi è raccontare un personaggio così mediatizzato principalmente come un fenomeno di costume, una materializzazione dello zeitgeist associato agli sviluppi dei media da lui cavalcati, come la televisione: e quindi fa della rappresentazione una questione tutta estetica, modaiola, impacchettata da una grana di pellicola che ricrea l’immaginario analogico del periodo. Il modo in cui inquadra Trump nella sua prima apparizione – come nel resto del film – è intelligentissimo, e ce lo restituisce prima di tutto come attore comunicativo, quello che siamo ormai bravi a riconoscere nelle sue smorfiette insolenti, nelle labbra corrucciate e nel ciuffo biondo.
E ne fa una questione estetica, appunto, soprattutto perché nella logica edonista americana che la storia vuole raccontarci – e nella personalità del protagonista – non c’è etica. Nonostante l’iniziale versione empatica di un giovane Donald Trump un po’ impacciato, quasi ridicolo e ambizioso sembri suggerirci la parvenza di un residuo umano dietro alla maschera inscalfibile, il “patto con il diavolo” con il mentore Roy Cohn cambia per sempre la sua vita e stabilisce le coordinate della sua (non) morale. L’imbattibile avvocato del maccartismo – interpretato da uno straordinario Jeremy Strong, che con la sua schiena ricurva e l’espressione imbambolata ruba l’occhio quasi più di Sebastian Stan – è un luciferino maestro di estetica vincente, di mindset – come diremmo oggi rubando il lessico a Tiktok – che scolpisce passo dopo passo l’aura dell’apprendista business man Trump.
Da quando il Donald trentenne mette piede nella stanza privata del club dove si trova Roy insieme ad altri ricchi yes man, ripresa come fosse un conciliabolo infernale, impara che l’etica non conta nulla per arrivare dove vuole, al vertice alla catena alimentare. Nell’arrembante America reaganiana (prefigurazione ideale di quella trumpiana), il killer Roy sa che «non conta niente a parte che vincere», e per riuscirci sa altrettanto che non esiste verità o finzione, solo opportunismo profittevole e amorale.
Trump, iniziato al culto egomaniaco del successo, diventa quindi una macchina inarrestabile di guadagni e conquiste, sdegnandosi di qualsiasi traccia di umanità (anche verso gli affetti più stretti) e trasformandosi nel predatore insaziabile di una priapica e fotogenica vittoria. L’ossessione per creare palazzi «più alti delle Torri Gemelle», la presenza del suo nome dappertutto (Trump è un brand, persino nei regali agli amici), l’esasperata ricerca di un’integrità virile (a nascondere una frustrante impotenza sessuale) e di una perfezione fasulla (i numerosi interventi chirurgici), sono tutti aspetti della personalità del tycoon che lasciano trasparire una cura per l’estetica a tratti puberale e grottesca.
Il Trump politico che oggi conosciamo, per ciò che suggerisce il film, è prosecuzione naturale dei precetti imparati sotto la guida di Roy Cohn, di quella mentalità tutta improntata all’estetica e all’astuzia che risponde alle regole di “attaccare” sempre, di “negare” sempre e “non ammettere mai” la sconfitta. È figlio di quell’«attacca-attacca-attacca» come mantra imperterrito, che sembra già fare da precursore al «fight–fight–fight» pronunciato dopo essere miracolosamente sopravvissuto all’attentato di Butler di quest’anno; o di quella convinzione per cui non esistono verità ma neanche bugie (semmai alternative truths), ed in fondo tutto è ammesso nel gioco politico; o ancora della presenza invadente di tribunali e questioni legali nella narrazione, che compone il suo immaginario odierno di processi e contrasti con la legge (già qui dice che l’America «è una Nazione di uomini, non di leggi»).
Nonostante il rischio di girare un’opera polarizzante da “clima delle elezioni” il risultato finale riesce a essere molto ponderato e ben studiato. Abbasi e Sherman, come dicevamo, riescono a stare sempre a metà tra smascheramento grottesco e percorso antropologico eccellente sul personaggio Trump e il sottobosco in cui si muove, ambiente che con il procedere del film si fa vero inferno, con il mutaforma (letteralmente) Donald che da curioso discepolo prende lo scettro del mefistofelico sovrano. Il ritratto di un politico così sopra le righe non è mai deliberatamente parodico o irrisorio come ad esempio quello di George W. Bush in W., né è mai retorica agiografia, ma mantiene un approccio simil documentaristico – grazie anche all’uso dinamico della camera a mano – che ha in sé il ritmo travolgente della commedia e la sfrontatezza del gangster movie scorsesiano.
Per raccontare Donald Trump, non c’era modo migliore che farlo tramite gli strumenti con cui la nostra idea di Donald Trump si è affermata nell’immaginario collettivo, e cioè attraverso l’estetica televisiva degli anni in cui diventava il personaggio pubblico che ha conquistato la società americana. Non c’era neanche bisogno di spiegare poi come sarebbe andato a finire nei nostri anni: i prodromi del Trump politico, come abbiamo visto, stavano tutti là. E non solo nel lui da giovane, ma anche negli Stati Uniti d’America che lo hanno creato.
Al cinema dal 17 ottobre.