Da Fa’ la cosa giusta a La parola ai giurati, il caldo al cinema è sempre stata una scorciatoia efficace per far incontrare e scontrare le individualità e far esplodere conflitti a malapena contenuti sotto la superficie. A questo ricco filone si ispira Ginevra Elkann nel suo secondo, ambizioso, a tratti illeggibile e febbricitante film Te l’avevo detto, presentato nella sezione Grand Public della Festa del Cinema di Roma.
Il panorama umano è ricco e variegato, e parzialmente indebitato a un gusto del trash appartenente a certa cultura televisiva e radiofonica italiana (chi riconoscerà in un determinato punto del film la voce di Giuseppe Cruciani comprenderà): c’è una ex pornostar sul viale del tramonto (Valeria Golino), una fanatica religiosa sua stalker ormai in preda alle allucinazioni (Valeria Bruni Tedeschi), la di lei figlia con problemi di dipendenza alimentare (Sofia Panizzi), un prete americano con dipendenza da droghe e sua sorella, venuta dall’America per spargere le ceneri della madre nel cimitero laico (Danny Huston e Greta Scacchi) e una giovane madre, anche lei in ricovero da un passato turbolento di droga e alcol che cerca di riavvicinarsi al marito e al figlio (Alba Rorwacher, Riccardo Scamarcio e Andrea Rossi). Le loro vite si intrecceranno in modalità più o meno prevedibili, mentre la temperatura continua a salire a livelli sempre più preoccupanti e spinge la popolazione a cercare ristoro verso i laghi.
La regista, con la voglia di fare di chi non ha nulla da perdere, si lancia in un flusso di coscienza onirico che sembra sfuggire a una qualsiasi logica di coerenza narrativa. Personaggi vengono introdotti e abbandonati con una facilità disarmante, potenziali svolte narrative vengono anticipate per poi evaporare come gocce sull’asfalto rovente. Ogni conflitto risulta determinato da una vaga necessità di sviscerare un numero di tematiche e problemi sociali francamente eccessivi persino per una serie di prestigio di 5 stagioni, figuriamoci per un film di un’ora e quaranta. Passando dalle dipendenze al cambiamento climatico (cercate di contare le volte che un personaggio si lamenta del caldo insolito, probabilmente vi fermerete una volta superate le tre cifre), dai traumi generazionali alla malattia mentale, il film inciampa nel compito impossibile di rappresentare un affresco umano complesso e variegato all’interno di uno spazio metaforico di un’ovvietà degno del più pretenzioso studente di cinema di primo anno; ben presto infatti le figure umane di contorno scompaiono, lasciando vagare nella soffusa luce giallognola che permea l’atmosfera allucinata di una Roma deserta solamente i nostri sempre più madidi protagonisti.
L’ambizione però porta la Elkann solo fino a un certo punto, e la scrittura dei personaggi e del dialogo tradisce più volte una difficoltà nel rappresentare in maniera plausibile anche le più semplici interazioni umane; particolarmente deliranti sono gli scambi fra il personaggio di Alba Rorwacher e un figlio che si lancia occasionalmente in asserzioni non richieste come: “Da grande non voglio avere figli. Siamo già in troppi in questo pianeta”, il cui peso tematico sarebbe percepito anche se non fossero pronunciate con tutta l’emotività di una chatbot. La mancanza di una disciplina di scrittura risulta evidente in maniera talvolta esilarante nel terzo atto del film, con rivelazioni prive di alcun contesto sganciate con nonchalance su un’audience ignara.
Nonostante dei difetti così lampanti, l’ingenuità e genuinità del prodotto finale fanno sì che sia difficile volere del tutto male a Te l’avevo detto, e il divertimento sregolato di attori a cui chiaramente sono state date poche limitazioni (Bruni Tedeschi su tutti) è contagioso e aiuta ad abbandonarsi alla logica illogica del film, intrappolando anche noi come i protagonisti a vagare senza meta e senza orientamento alla ricerca di un senso che non c’è, o che forse è scappato insieme agli altri verso i Laghi.