Come già avvenuto negli scorsi anni, la redazione del DassCinemag torna a stilare una lista (ovviamente parziale) dei suoi film del 2022, senza pretesa alcuna di andare a prendere le opere considerate migliori o le folgorazioni a ogni costo. Quella che segue non è quindi una classifica, ma una serie di pareri su opere liberamente scelte dalle autrici e dagli autori che hanno deciso di partecipare.
I titoli che troverete qui di seguito hanno avuto la loro release pubblica ufficiale (si considera la prima internazionale, in sala o in streaming) all’interno dell’arco solare, con esclusione quindi delle opere passate solamente nei circuiti festivalieri, con un paio di eccezioni legate al rilascio internazionale negli ultimi giorni dello scorso anno e l’arrivo in Italia nei mesi successivi.
Aftersun
Callum (Paul Mescal) e Sophie (Frankie Corio) sono padre e figlia. Lui ha sempre un sorriso triste dipinto sul volto, è schivo, irrequieto. Lei è comprensiva, con lo sguardo costantemente puntato sul padre e una mano sempre pronta ad accarezzarlo. Il loro è un rapporto complesso, fatto di fragilità ma anche di sorprendenti attimi di dolcezza. Aftersun, diretto dall’esordiente Charlotte Wells, è un film sui mostri silenziosi che tolgono il sonno, sul peso di un’esistenza che arriva a soffocare, ma soprattutto sull’amore che lega due complicati esseri umani in stato di divenire.
Quanto impatto ha sulla nostra vita il rapporto che ci unisce ai nostri genitori? Tanto, e Sophie lo sa bene, trovandosi anche venti anni dopo a combattere con l’ombra di un padre che è stato emotivamente assente. Utilizzando uno stile personalissimo, Wells esplora il rapporto padre/figlia con delicatezza e, allo stesso tempo, non concede sconti ai suoi personaggi che appaiono brutalmente onesti, in tutte le loro sfaccettature più oscure. Un racconto di formazione che gioca per sottrazione. La poetica messa in scena di uno spaccato di vita.
di Francesca Nobili
Bardo, la cronaca falsa di alcune verità
Quando Netflix si avvale di grandi autori per sfornare nuovi prodotti, noi cinefili della prima ora siamo sempre spaventati irrazionalmente da quale potrebbe essere il risultato. Si saranno forse venduti alle multinazionali? Avranno forse fatto il blockbuster senza anima per una manciata di dollari? Non sono bastati Cuaron e Scorsese a farci stare tranquilli. Ecco che in questo clima di terrore arriva la camomilla calmante targata Iñárritu: Bardo, la cronaca falsa di alcune verità.
In un film in cui si mette completamente a nudo davanti allo spettatore, il regista con grande intimità racconta sé stesso attraverso il mezzo che più ama: la cinepresa. La passione per la storia del cinema trasuda dallo schermo, una cascata emozionale che viaggia tra l’8 ½ di Fellini e un flusso di coscienza, degno di James Joyce, che ricorda Sto pensando di finirla qui di Charlie Kauffman, senza mai perdere la sua forte identità. Con la dolcezza di un abbraccio alle sue radici sudamericane e la frenesia brillante che lo contraddistingue, culla lo spettatore in mezzo alla tormenta; e il naufragar m’è dolce in questo mare.
di Alessandro Viani
Blonde
Uscito fuori con le ossa rotte dal confronto con il pubblico e con diversa critica, del vero valore del Blonde di Andrew Dominik ci accorgeremo forse per davvero solo tra dieci anni. Un manifesto brutale sul valore dell’immagine nell’era iconografica che stiamo attraversando, una spietata disamina sulla malleabilità dell’icona messa al servizio dello sguardo che tutto vuole e tutto ingurgita (nel 2022 altri due ottimi film ragionano su questo punto: Elvis e Nope).
Chi è Marilyn Monroe? Chi è Norma Jeane? Non è importante, non interessa a nessuno, è solo un costrutto da consumare, una figura che si forma sotto la luce del riflettore, che si irradia a partire dalla rifrazione del raggio luminoso lanciato da una pupilla che mette a fuoco. Dov’è la verità? C’è la verità? No, nemmeno questo in fondo è importante, perché la partita è giocata tutta sul campo dell’inaffidabile epoca dell’immagine come strumento di potere, di controllo, di sazietà. Marilyn esiste solo nelle sue infinite iterazioni e di Norma Jeane non c’è più traccia.
di Alessio Zuccari
Bones and All
Bones and All, fino all’osso, fin dove scava il nuovo film di Luca Guadagnino sedimentandosi nel profondo e restando lì per ore, per interi giorni dopo la visione. Un film fatto per riecheggiare nella mente degli spettatori, con le sue immagini e la sua musica fuse in una compagine ossimorica capace di creare l’atmosfera perfetta per il racconto d’amore mostruoso che tutti stavamo aspettando. Mostruoso eppure profondamente umano, oppure umano proprio perché così mostruoso.
Come il cannibale, figura al centro dell’opera, che da qualche anno è tornata ad abitare i grandi e i piccoli schermi. Basti pensare che nel 2022 oltre alla pellicola di Guadagnino ne è uscita un’altra sullo stesso tema: Fresh, esordio di Mimi Cave. D’altronde i mostri sono sempre stati potenti metafore al cinema e non solo, pronti ad insegnare tanto, ma solo a coloro altrettanto pronti ad ascoltarli. E quest’anno il pubblico era pronto per i cannibali di Bones and All, vuoi per l’interpretazione dei due attori protagonisti (Timothée Chalamet e Taylor Russel) in grado di creare una conturbante alchimia tra personaggi e pubblico, vuoi per l’esistenza di una famiglia di cannibali moderni, meno spaventosi e più umani, pronta ad accoglierli. Ad ogni modo ha funzionato: Bones and All è il film giusto al momento giusto.
di Lavinia Flavi
Bros
Bros di Nicholas Stoller è la spiazzante commedia romantica tutta LGBT+ del 2022. Il complesso arcobaleno gender riportato nel film è tuttavia soltanto un vestiario da cui partire per indagare poi, più in particolare, le inibizioni e le frustrazioni di due scontenti omosessuali newyorkesi. Frizzante nella sceneggiatura ed elastico nella messa in scena, Bros sa raccontare con rispetto e veridicità l’incontro tra due nessuno alla ricerca di una stabilità emotiva.
Il logorroico Bobby e l’insicuro Aaron, interpretati da Billy Eichner e Luke Macfarlane, intraprendono assieme un viaggio di cambiamento e connessione regalandoci sia momenti di dissacrante comicità che di poetica stasi. Ad esempio, la sequenza in cui passiamo dalla città caotica al mare calmo è segnale di una commovente rivoluzione all’interno dei rapporti tra i protagonisti: se fino a quel momento il film di Nicholas Stoller è stato chiassoso e sopra le righe, ora mette finalmente il piede sul freno a favore di un quiete ascolto e di una candida condivisione. Forte soprattutto di recitazioni brillanti, Bros di Nicholas Stoller trascende il semplice appello all’inclusività e si erge infine a favola dichiaratamente alternativa del nostro contemporaneo vivere sempre più eterogeneo.
di Eugenio Sommella
C’mon C’mon
Da una parte Johnny (un meraviglioso Joaquin Phoenix), giornalista radiofonico gravato dall’abbandono della persona che amava; dall’altra Jesse, nove anni, minuto e iperattivo, che sente sempre il bisogno di parlare quasi come per afferrare la realtà che lo circonda. Nel mezzo un tenero tentativo di dialogo, fatto di stranezze e incomprensioni, di un contatto tra esseri umani ciascuno dotato del proprio mondo interiore.
C’è un che di fiabesco nel modo in cui Mike Mills dispone l’armonia dei suoi personaggi. Lo dimostra in C’mon C’mon, racconto di un uomo di mezza età e del suo rapporto con il piccolo e (fin troppo) sveglio nipote. Con estrema sensibilità il regista mette in campo uno dei rapporti più naturali, quello tra l’infanzia e il mondo degli adulti, ma allo stesso tempo il più complesso e ostico di tutti. Lo fa per sviluppare, con tocchi delicati, una metafora degli affetti umani, delle debolezze, dei sentimenti e della loro difficile espressione. Il tutto con una storia dolce ma mai smielata, soffice e acuta allo stesso tempo.
di Lorenzo Procopio
Elvis
La passione di Baz Luhrmann per il film musicale viene esaudita quest’anno con il revival della figura di Elvis Presley in un’opera sgargiante per occhi e orecchie, che restituisce al suo protagonista una dignità probabilmente troppo insabbiata dalla narrazione che lo vuole manovrato dalla spietata industria americana. Elvis si avvale di un magnifico Austin Butler per sfogliare rapidamente la vita del re del rock and roll, soffermandosi opportunamente su alcuni punti, prima di tutto sul periodo delle origini della sua carriera costruita sulle fondamenta della black music, per poi essere scoperto e lanciato dal Colonnello Tom Parker (Tom Hanks), voce narrante del film.
Il ritmo esercitato consente ad Elvis di tenere saldamente in mano la sua importante durata. Se a ciò si aggiungono le scelte grafiche che rendono lo schermo un dinamico e sofisticato portale di immagini e il lavoro sulla colonna sonora, in particolare sulle musiche con il coinvolgimento di artisti musicali attuali, il biopic sembra avere tutte le intenzioni di voler farsi sentire ancora a lungo tra le nuove generazioni.
di Simone Orazi
Jackass Forever
Il 2022 è stato l’anno del ritorno in grande stile di Jeff Tremaine dopo l’uscita, 12 anni fa, di Jackass 3D. Fenomeno culturale di enorme portata, Jackass fin dai tempi di MTV ha riunito un pubblico variegatissimo cresciuto con gli stunt folli ed esilaranti di Johnny, Steve-O, Dave, Wee Man, Danger Ehren, Chris e Preston e che adesso a vent’anni dal primo film ritrova quasi la stessa crew, sebbene con qualche ruga e capello bianco in più.
Tra gli ultimi baluardi della rappresentazione della cultura underground sul grande schermo, Jackass Forever testimonia la resistenza di un forte senso di fratellanza e di sfida alla mascolinità egemone, mettendo in discussione le norme di genere, rifiutando il ridicolo superando i limiti di ciò che è permesso mostrare al cinema. Il film prodotto da Johnny Knoxville e Spike Jonze è l’inno malinconico a una libertà non solo audiovisiva ma in senso più ampio a una libertà di esistere con spensieratezza, leggerezza e disinibizione. E anche un pizzico di disgustosa spericolatezza.
di Marianna Peperna
Licorice Pizza
Una Los Angeles tutta da percorrere a piedi, una playlist di brani musicali da sogno, attori e produttori fuori di testa e figli del proprio ego, piccoli e improvvisati imprenditori che credono nei materassi ad acqua. Sono molte le suggestioni che compongono Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson, personale amarcord del regista sulla L.A. di inizio anni ’70.
Un coming of age che, quasi arrivando a negare una successione causale e un’evoluzione concreta dei propri personaggi al di fuori della loro relazione, sembra voler riflettere sulla spettacolarizzazione dell’amore in sala. Quasi un aggiornamento di American Graffiti che vive in funzione della sua esistenza sul grande schermo; o che sa cogliere l’ultimo sprazzo vitale di quel tramonto che porrà fine alle sgangherate giovinezze di Gary e Alana.
di Luca Di Giulio
Nope
Nope, terzo film del regista statunitense Jordan Peele, esce nelle sale italiane ad agosto portando con sé un rilevante bagaglio di aspettative dopo il successo del pluripremiato Get Out e soprattutto dopo l’approdo del regista alla Universal Pictures. Il budget è importante, il cast altrettanto (Daniel Kaluuya, Keke Palmer, Steven Yeun), le possibilità di sbagliare il film non poche. Il risultato però non è affatto deludente.
Con Nope Peele fa uno scatto che lo porta dal genere horror a sfondo sociale, il suo cavallo di battaglia, a un horror dai toni più fantascientifici, una mossa apparentemente rischiosa che tuttavia permette al regista di spostare il focus dalle questioni sociali legate al razzismo a un discorso autoriflessivo sul cinema, la televisione e più in generale sulle tecnologie. Inutile parlare di trama o della sua efficacia quando un film riesce ad evocare generi, scenari e temi così diversi fra loro come fa Nope.
di Claudia Teti
Pinocchio di Guillermo del Toro
Pinocchio di Guillermo del Toro è una pellicola in stop-motion il cui successo può ritenersi straordinario. Il regista messicano, a differenza di altre rivisitazioni della storia di Carlo Collodi, in questo lungometraggio riesce ad osare molto a livello contenutistico, creando un’opera ammaliante. Una delle caratteristiche del film facilmente riscontrabili è, in primis, la sua bellezza in quanto forma d’arte: dal setting ai pupazzi, tutto è costruito con grande zelo, e restituisce quel senso di autenticità e fascino tipico dei lavori d’artigianato. Passando poi ai temi del racconto, il regista qui decide di abbandonare la componente favolistica e, al suo posto, ci propone una storia realistica, piena di verità, in cui Pinocchio riesce ad esercitare il libero arbitrio nel periodo del ventennio fascista, in cui la dittatura tenta di piegarlo al suo volere e uniformarlo a tutti gli altri, i veri puppets.
Del Toro propone qui un burattino che, grazie al suo essere sovversivo, riesce non solo a raggiungere il traguardo dell’essere un bambino vero pur rimanendo di legno grezzo, ma dimostra anche di essere molto più maturo degli adulti che lo circondano e che, a differenza sua, non hanno avuto il coraggio di ribellarsi. Pinocchio di Guillermo del Toro è, dunque, un inno alla libertà nella sua accezione più veritiera e sincera. Oltre a rappresentare una bella “favola antifascista”.
di Valeria Maiolino
Sanctuary
“Dimmi che per te è importante. Che non puoi viverne senza”: questo è il mantra ripetuto da Hal e Rebecca, i protagonisti di Sanctuary, diretto da Zachary Wigon. Circoscritti in un solo spazio, quelli che si attaccano, si stuzzicano e uniscono, sono i corpi di mille maschere e altrettante personalità. Un uomo facoltoso (Christopher Abbott) ha appena ereditato la prosperosa attività aziendale del padre. La memoria della figura paterna pesa, però, sull’inesperto Hal: non ne è all’altezza e annega le sue insicurezze cimentandosi in un gioco perverso, nel quale la dominatrice Rebecca (Margaret Qualley) rappresenta lo sfogo delle sue fantasie di potere.
A scontrarsi sono due fisicità opposte, chi vuole dominare e chi si lascia manipolare. Ciò che paradossalmente rimane da questo conflitto è la perdita dell’umanità a favore di un istinto animalesco misto a una tossica interdipendenza. Lo spettatore viene coinvolto all’interno di una vertigine visiva che mostra come nella loro (micro)realtà Hal e Rebecca si trovino racchiusi in quattro mura, le quali finiscono per compendiare l’intero universo emotivo dei protagonisti.
di Giulia Tranquilli
The Northman
Dopo due grandi film come The Witch e The Lighthouse, Robert Eggers torna al cinema nel 2022 con il suo nuovo lavoro: The Northman. La nuova opera del regista statunitense emoziona e regala allo spettatore una storia caotica, cruda e pregna di pathos. Il lungometraggio segue le vicende del giovane principe Amleth, testimone dell’omicidio di suo padre ad opera dello zio Fjolnir; il ragazzo, scampato dalla morte, giurerà a sé stesso che, una volta adulto, tornerà per compiere la sua vendetta.
Tecnicamente il film si dimostra molto valido, le immagini che Eggers immortala sono potenti, forti ed eleganti nella loro brutalità. Tra le tre pellicole dirette fino ad ora del cineasta americano, The Northman si configura, probabilmente, come la più autoriale e meno sperimentale, un’opera pensata per soddisfare le aspettative di un’ampia fetta di pubblico; un epico revenge movie sicuramente in grado di lasciare soddisfatti i fan del regista e del genere.
di Lorenzo Silvestri