Quella della redazione di DassCinemag è una lista di film (volutamente parziale) che dal 2020 non vuole prendere necessariamente ciò che è ritenuto migliore. Le nostre sono libere e incondizionate suggestioni, titoli che hanno come prima uscita mondiale quella all’interno di questo arco solare, più precisamente successiva alla notte degli Oscar tenutasi lo scorso 9 febbraio. Abbiamo deciso di non inserire nemmeno le opere passate per i vari circuiti festivalieri, ma solamente quelle che già hanno ottenuto una distribuzione in sala o in streaming nel corso di un anno estremamente travagliato per la filiera cinematografica.
Ogni pellicola scelta deriva da una selezione strettamente personale così come è personale il parere che ne dà l’autore, colpito, per una ragione o per un’altra, dal film che ha deciso di inserire qui di seguito.
Enola Holmes, di Harry Bradbeer
Nonostante la piattaforma Netflix sia estranea al carattere esperienziale-riflessivo che impregna visceralmente la sala cinematografica, essa si è imposta nel corso degli anni – tra le altre cose – come una “scelta” obbligata dall’odierno tempo storico-tecnologico o comunque necessaria per diffondere e amplificare la benefica discussione su tematiche ancora scottanti nel contemporaneo. Tra le questioni affrontate dal colosso dello streaming vi è sicuramente quella relativa al discorso femminista che abbraccia tutt’oggi il pianeta e che trova una sua piccola ma interessante voce in Enola Holmes di Harry Bradbeer, distribuito in settembre sulla super-piattaforma.
L’avventura della giovanissima sorella di Sherlock affonderà le mani nel movimento femminista del primissimo novecento ed eleggerà Millie Bobby Brown come l’attivista e detective adolescente che invoca il diritto al voto per tutte le donne d’Inghilterra e che sarà chiamata a risolvere il caso di una vita. La battaglia per l’Equality of Rights incontra la caccia al tesoro e, in particolar modo nel film di Bradbeer, entrambe daranno luogo ad un percorso di formazione che non riguarda il genere, quanto la persona tout court. In tal senso Enola sarà costretta ad un viaggio iniziatico che non vuole soltanto “invigorire” la donna ma che mira ad una presa di coscienza dei bisogni e delle emozioni dell’individuo in sé.
Enola Holmes dell’immancabile Netflix sarà parabola incantevole di una storia tutta femminile del passato, ricontestualizzata nell’orizzonte multimediale contemporaneo, e tassello di una piattaforma di fruizione incredibilmente multisfaccettata e incondizionata che può informare gli sguardi più curiosi e anche (perché no?) sensibilizzare a certe tematiche quelli, invece, più intransigenti. E di questo forse Netflix ha grande merito!
di Eugenio Sommella
Gretel & Hansel, di Oz Perkins
Gretel & Hansel è la prova provata di come l’elemento ultimo (o cellula primaria) del prodotto filmico sia dopotutto quell’effetto magico e in divenire racchiuso all’interno dei quattro lati dello schermo. L’immagine e il suo potere evocativo sopra la parola, il sonoro, la colonna audio che nel film di Oz Perkins è fatta piccola piccola, rosicchiata all’osso e ricondotta ai termini essenziali dell’emblematico atto del guardare come unica coordinata narrativa.
E di fondo c’è da ammetterlo che di narrazione vera e propria in questo film ce n’è poca, di certo non scalpita per avanzare o per trovare l’assenso nel suo arrivare a compimento. Infatti questa rivisitazione della fiaba dei fratelli Grimm rovescia i suoi addendi protagonisti (Sophia Lillis è la sorella maggiore del formidabile Samuel Leakey) e si ferma poco più in là. Li cala in un piccolo quanto cosmico immaginario mefistofelico costruito sui giochi di luce e di ombra, sulle quinte di un teatro a spazio aperto sul quale pende la scure perenne di una enorme luna piena quasi espressionista (o dopotutto è solo espressiva?).
È la forza del simbolo che si fa traino di sguardi distorti dalle lenti, di gesti ponderati e calibrati che sono l’anticamera di anatemi tracciati nell’aria, sul tavolo, sulle mura e sul (nel) cibo che questa strega prepara per potersi riservare il gusto di osservare chi gusta e ancora non dubita. L’arco forse non si tende ma compie comunque un percorso intero impresso a fuoco sulla retina, sufficiente a generare il mondo prima di fiondarlo giù nelle tenebre.
di Alessio Zuccari
Il processo ai Chicago 7, di Aaron Sorkin
Quella che si presenta come l’eredità di Steven Spielberg risalente al lontano 2006, è una pellicola travolgente, energica ed incredibilmente attuale che ne amplifica ogni sentimento di giustizia sociale e civile in un momento storico come quello corrente.
Il processo ai Chicago 7, basato su fatti realmente accaduti a fine anni ’60, segue le vicende dell’estenuante processo che ha visto protagoniste sette persone tra loro sconociute e anche distanti in quanto a provenienza sociale. Aaron Sorkin, che ne è regista oltre che – come di consueto – sceneggiatore, sviluppa lo snodo narrativo su temi a lui cari: una storia vera, il potere della dialettica e un profondo senso di giustizia sono alla base, invero, di un profotto estetico-narrativo senza eguali.
Sorkin, da sceneggiatore quale nasce, opta per un resa in cui la vera protagonista dominatrice dello sviluppo narrativo è la parola e l’immenso potere conferito al dialogo, scelta oltretutto assolutamente coerente con il tutto svolgendosi tre quarti di pellicola in un’aula di tribunale. Attraverso un ritmo incalzante e un dialogo spettatore/personaggi che spesso trova un funzionale appiglio ad una contemporaneità socialmente lacerata come la nostra, Sorkin ci restituisce il prodotto giusto al momento giusto; è un film che stavamo aspettando? No. E’ un film di cui avevamo bisogno? Assolutamente sì.
“Abbiamo portato certe idee oltre il confine di Stato. Non mitragliatrici, droga o ragazzine. Idee.” Le idee: la cosa più immateriale e concreta al tempo stesso di cui, da ieri a domani, viviamo ogni giorno.
di Roberta Marolla
Imprevisti digitali, di Benoît Delépine e Gustave Kervern
Cookie, bingewatching, captcha, bitcoin e molti, forse troppi, sono gli aspetti messi a fuoco nella nuova commedia di Delépine & Kervern, Imprevisti digitali, premiata all’ultimo festival di Berlino con l’Orso d’argento per il gran premio della giuria. I registi francesi, attraverso le disperate vicende dei tre protagonisti, ci offrono una ragionata analisi sulla contemporaneità, sul mondo del web e dei social network, dove una semplice azione – una recensione negativa su Uber o una clip a sfondo sessuale compromettente – può far crollare la vita di ognuno di noi in un istante, grazie a un semplice clic.
Il tutto attraverso uno stile irriverente e dei riferimenti “scomposti”, fuori dal comune (la comparsata di Michel Houellebecq e le musiche di Daniel Johnston), che faranno decollare la vicenda, dalla provincia francese fino a Palo Alto e passando per le isole Mauritius, fino al cuore del problema. Verso quell’ultimo spazio fisico, o “analogico”, dove riconquistare quella naturalezza, o quel senso della risata, che sembriamo aver perso.
di Luca Di Giulio
Kajillionaire, di Miranda July
C’è chi vuole diventare ricchissimo e chi invece si accontenta di tirare avanti. Ma la vera ricchezza spesso non ha nulla a che fare con i soldi. Di questo si accorgerà Old Dolio (Evan Rachel Wood), protagonista di Kajillionaire, terzo lungometraggio scritto e diretto da Miranda July ma anche il primo che non vede la regista nelle vesti di attrice. La poliedrica artista torna però a riflettere sul tema spesso cardine dei suoi film: la solitudine. Quest’ultima è infatti una condizione che sembra accomunare tutti quanti, tranne forse i più fortunati. Ma non è detto che nella vita non si possa fare jackpot e trovare qualcuno di cui innamorarsi.
Eppure l’amore non sempre è facile da (ri)conoscere, soprattutto se non lo si è mai visto prima. Miranda July con queste poche premesse fa salire lo spettatore su quella montagna russa di emozioni che si dimostra essere il percorso di affrancamento di uno dei personaggi più singolari messi in scena nel 2020. Il tutto reso possibile grazie anche all’ottimo lavoro degli attori, la cui fisicità è stata sapientemente sfruttata, rendendo il corpo di ognuno centro nevralgico di una particolare caratterizzazione, a tal punto da trasformare il film in una danza, un ballo tra i colori la cui luminosità comunque non affievolisce le tinte grigie di cui Kajillionaire è intriso.
di Lavinia Flavi
L’immensità della notte, di Andrew Patterson
L’immensità della notte è un film di Andrew Patterson, presentato per la prima volta al Slamdance Film Festival del 2019 e successivamente distribuito in Italia su Amazon Prime Video nel 2020. La storia si svolge negli anni ’50, dove la giovanissima centralinista Fay Crocker, interpretata da Sierra McCormik, intercetta uno strano segnale audio. Aiutata dal suo amico Everett (Jake Horowitz), Fay tenta di capire cosa ci sia dietro questo misterioso segnale e deciderà di trasmetterlo via radio, nella speranza di ricevere una risposta.
Il film si presenta come un chiaro e amorevole tributo alla fantascienza anni ’50/’60 e nonostante la trama ruoti attorno ad un topos cinematografico già abbondantemente sviscerato nel corso degli anni, il film riesce con grande successo a sviluppare una storia fresca e innovativa. Andrew Patterson realizza un’opera coraggiosa e sperimentale, curatissima sotto il profilo tecnico e in grado di soddisfare ogni tipo di pubblico. Seppur il regista sia un esordiente, riesce ottimamente a giocare con le sensazioni degli spettatori ed a stimolare in loro la curiosità per tutta la durata della pellicola, raccontando una vicenda ai confini della realtà senza ricorrere ad avanguardistici artifici visivi.
L’immensità della notte è un gioiellino sci-fi con tutte le carte in regola per poter divenire nel tempo un piccolo cult, che ogni fan della fantascienza dovrebbe guardare.
di Lorenzo Silvestri
La verità di Grace, di Tyler Perry
Virginia Woolf diceva: “Per tutti questi secoli le donne hanno svolto la funzione di specchi, dotati della magica e deliziosa proprietà di riflettere la figura dell’uomo a grandezza doppia del naturale”. Probabilmente è questo che Tyler Perry vuole mostrare nel film La verità di Grace. Eccolo qui: un film spiazzante, sconvolgente, che lascia con il fiato sospeso e tiene alta l’attenzione fino alla fine. Grace è una donna finita in carcere con l’accusa di omicidio, ma senza aver veramente commesso il reato. Nonostante si tenti di additarla come un’assassina spietata che uccide a sangue freddo, è una donna che nasconde una triste verità.
E’ una storia che riesce a far porre una serie di domande sulle condizioni in cui le donne vengono sottomesse dagli uomini. In questo caso, Grace, che viene umiliata nella sfera privata, diventa il famoso specchio in cui, l’uomo che ha davanti, si ingrandisce sfruttando l’elemento chiave del suo rapporto con la donna: l’amore. La sua storia mostra quanto le leggi americane siano sbagliate, quanto l’uomo riesca a prevalere sulla donna indipendentemente dalla sua colpa e quanto essa sia impotente davanti a questo. In un mondo ancora fin troppo patriarcale, dove gli uomini credono fermamente di avere avere il potere su tutto, Grace ha la meglio.
La forza è donna, che in questo caso sembra carnefice ma è vittima e grazie a questo riesce a tirare fuori gli artigli per farsi valere. E’ vittima di uno Stato che vuole disorientarla, scoraggiarla e metterla a tacere ma non ci riesce. In un sistema fatto di pregiudizi, di terrore, di leggi inflessibili, Grace riesce a trovare il suo posto. A dire la sua verità. A imporre la sua voce in un mare di voci spesso inascoltate, causate a volte dal colore della pelle, a volte semplicemente dall’essere donne. Un vortice di emozioni, paure, stati d’animo altalenanti, che sfociano in una sfera umana delicata e profonda, dove c’è solo una cosa che vale: l’onestà dell’essere fragili. Perché è di questo che si ha bisogno al giorno d’oggi. Delle donne che aiutano altre donne e che si battano per un mondo migliore.
di Valeria Maiolino
Mank, di David Fincher
Mank è sicuramente un’opera che, al di là dei gusti personali, non può mancare in una classifica sui film dell’anno e soprattutto in una classifica dei film del 2020. L’ultima opera di David Fincher è interessante perché metafora lampante del cinema stesso. Un cinema visto come un piccolo baluardo che resiste, con un ritmo incalzante e uno stile geniale, alle dure sferzate che subisce. La lotta di Herman Mankiewicz (“Mank”)/Gary Oldman contro la MGM diventa lo scontro tra Netflix e “i vecchi poteri”, da Cannes all’Academy (sebbene, paradossalmente, il colosso dello streaming stia in realtà virando sempre più a un ritorno all’integrazione verticale tipica dello studio system stesso).
In un anno, inoltre, dove l’affetto familiare è diventato ancor più qualcosa a cui tenersi saldamente stretti, Mank risulta anche il simbolo della nostra epoca: dell’amore di un figlio, lo stesso David Fincher, a un padre, Jack Fincher, autore della sceneggiatura del film targato Netflix, morto nel 2003 dopo una lunga battaglia, esattamente come Mank (uno con il cancro e l’altro con l’alcolismo). Mank, al di là di ogni analisi critica, estetica o tecnica, è quindi fondamentale in una lista dei film del 2020 per la sua capacità di comunicare con la contemporaneità: con il cinema e il suo pubblico, immerso in una battaglia contro il mondo, solo e malconcio come il brillante sceneggiatore, ma con ancora la voglia di lottare e di mostrare la propria tenacia e la propria capacità di stupire e di poter ancora sognare.
di Macha Martini
Onward, di Dan Scanlon
Parlare di Onward – Oltre la magia, vuol dire parlare di rinascita. Rinascita intesa in molteplici sensi: da quello produttivo, a quello tematico, a quello simbolico, e anche quello esistenziale. Il primo risulta inquadrando la pellicola nella filmografia Pixar. È infatti risaputo come la casa di Emeryville abbia attraversato negli ultimi anni una crisi creativa che l’ha portata a sfornare una serie di sequel dei loro capolavori del passato e un paio di film molto validi che, ricordandoci di cosa la Pxar al suo meglio sarebbe capace, hanno reso il pubblico ancora più insoddisfatto dell’andazzo. Adesso che il futuro della Pixar sembra essere sgombro di sequel e prequel possiamo forse parlare, a partire proprio da Onward, di una rinascita per questo studio di animazione.
In fondo, come dicevamo, la rinascita è anche la tematica del film. Il padre di Ian e Barley, morto quando il primo ancora doveva nascere e il secondo era molto piccolo, ha lasciato loro in regalo le istruzioni per un incantesimo che gli permetterà di tornare in vita per 24 ore. Purtroppo qualcosa andrà storto e Ian e Barley passeranno gran parte delle 24 ore cercando una modalità alternativa per far rinascere loro padre. Ma il film parla di rinascita anche in senso più ampio. Alla fine a rinascere non è il padre, ma Ian e Barley stessi. Infatti, nel corso del loro viaggio, si confronteranno fra di loro, con il loro passato, e con le aspettative e le paure nei riguardi del futuro. E, infine, approderanno ad una maggiore consapevolezza e fiducia in sé stessi, che permetterà loro di affrontare il mondo e la vita con più serenità e coraggio.
Un’ultima considerazione (più personale) per dire che questo è stato l’unico film che ho visto al cinema nel 2020, nel breve periodo in cui hanno riaperto fra la prima e la seconda ondata. E nella Rinascita di Onward non ho potuto fare a meno di proiettare anche un po’ di speranza, per una Rinascita che coinvolga tutti noi, in un futuro che spero il più prossimo possibile.
di Francesco Grilli
Rebecca, di Ben Wheatley
Rebecca di Ben Wheatley è il film remake del celebre Rebecca – La prima moglie di Alfred Hitchcock del 1940, a sua volta adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Daphne Du Maurier del 1938. La storia è nota, del conflitto tra la nuova Mrs. De Winter e l’ombra dell’ex e defunta Mrs. De Winter, la cui sua presenza è tenuta in vita dalla signora Danvers, governante dell’enorme tenuta.
Nel complesso, il film rispetta molto da vicino il suo predecessore. La possibilità di lavorare a colori, rispetto al bianco e nero hitchcockiano, apre le porte ad un lavoro di fotografia impressionante. Inoltre, decide di discostarsi solo per alcuni dettagli, come il sonnambulismo di Maxim De Winter, ad esempio, o un focus più intenso sulla nascita dell’amore tra i due co-protagonisti, oppure ancora un gioco di specchi nell’anticamera della stanza di Rebecca. Molti piccoli elementi che, però, non riescono a compensare la mancanza di audacia della sceneggiatura, che similmente alla fragile signora De Winter sente il confronto con sua “madre” e, nel tentativo di “ucciderla”, sminuisce se stessa.
Una nota all’interpretazione di Lily James, Armie Hammer e Kristin Scott Thomas è doverosa. Essendo approfonditi bene i loro personaggi, hanno avuto parecchia libertà espressiva. Ma, mentre i primi due utilizzano un approccio più esasperante delle loro caratterizzazioni, quella che sembra davvero perfetta per il suo ruolo è proprio la Scott Thomas, gelida e terrificante al punto ottimale.
di Valentina Longo
Sul più bello, di Alice Filippi
Il lungometraggio di Alice Filippi Sul più bello è quanto mai attuale, diverte e allo stesso tempo fa riflettere ed emozionare gli spettatori trattando tematiche importanti, ma facendo attenzione a non cadere nei soliti cliché. È un teen drama che affronta i temi della contemporaneità subordinandoli però ad una condizione imprescindibile: il continuo scorrere del tempo.
La scelta di Marta, giovane ragazza affetta da fibrosi cistica, di non procrastinare più i suoi desideri bensì di viversi intensamente il presente l’ha portata a conoscere Arturo, il bello impossibile, totalmente diverso da lei, che poi però si rivelerà essere il vero amore, un amore quasi shakespeariano che supera le differenze sociali, supera le cose effimere e accetta il destino soltanto dopo aver provato in qualche modo a cambiarlo.
Allo stesso tempo, però, si sviluppa anche una seconda storia, quella tra Federica e Jacopo, due ragazzi omosessuali che però vogliono a tutti i costi un figlio, nonostante la loro giovane età. La voglia di bruciare le tappe è tanta così come eccessiva è la fretta di diventare adulti, una frenesia che però alla fine lascerà il posto alla ragione. Il tempo è la chiave di tutto il film: quei granelli di sabbia che scorrono nella clessidra della vita di ognuno di noi in questo periodo sembrano correre anche troppo velocemente. Forse, guardando questo film, ci renderemo conto dell’enorme valore intrinseco del presente e capiremo che pensare troppo al futuro a volte non è la cosa giusta perché proprio sul più bello tutto potrebbe cambiare.
di Simone Amabili
Tenet, di Christopher Nolan
Tra le pellicole che hanno segnato quest’anno non si può non citare l’ultimo lavoro di Christopher Nolan. Tenet è stato una ventata d’aria fresca per un pubblico ansioso di tornare alla normalità, in quanto prima grande produzione hollywoodiana a essere distribuita nelle sale dopo mesi di chiusura. John David Washington è il Protagonista (il personaggio principale non ha un nome proprio), un agente segreto con il compito di salvare l’umanità da una misteriosa quanto pericolosa tecnologia proveniente dal futuro in grado di invertire l’entropia degli oggetti, rendendoli cioè in grado di invertire il proprio flusso temporale. Al suo fianco in questa corsa contro il tempo, o meglio all’indietro nel tempo, ci sarà il fisico Neal, interpretato da Robert Pattinson, e la seducente Kat, ruolo affidato a Elizabeth Debicki.
Il regista ormai famoso per i suoi blockbuster d’autore torna a giocare con le lancette dell’orologio in modi intelligenti ma sostanzialmente già visti. Sotto una superficie intricata e macchinosa resta la sostanza di un film piuttosto lineare e persino prevedibile, ma ancora in grado di regalare a un mondo stanco un paio d’ore di puro intrattenimento, anche grazie alla bellezza degli effetti visivi, all’ipnotica colonna sonora e alla bravura degli interpreti.
di Floriana Durante
Volevo nascondermi, di Giorgio Diritti
La figura tormentata del pittore Antonio Ligabue non poteva ricevere un racconto cinematografico migliore: il film di Giorgio Diritti fa provare alla persona spettatrice la sofferenza dell’artista incompreso e il disprezzo che subisce l’uomo problematico attraverso una narrazione atipica per il genere biografico. Il racconto di Volevo nascondermi si costruisce poco a poco e il tempo narrativo si combina in un montaggio alternato tra passato e presente che tratteggia una personalità complicata e complessa.
Il pittore è interpretato da Elio Germano, un attore in grado di mettere in gioco tutto se stesso per delineare la figura afflitta di un personaggio sempre in piena evoluzione: il suo carattere inquieto, il suo animo sensibile, a tratti insolente, vengono riportati con una delicatezza che addolorano. Poi c’è il discorso sull’arte, ovvero su quando il valore del genio non viene riconosciuto per colpa delle apparenze, in una società italiana nel pieno di un periodo di cambiamenti socio-culturali convulsi e violenti.
Il film di Diritti non dimentica il racconto puramente visivo: le inquadrature, spesso grandangolari, composte con accuratezza ma senza una boriosità invadente, costruiscono vedute a tratti suggestive. È importante sottolinearlo, perché è ogni elemento che compone Volevo nascondermi che permette di restituire una visione così intensa, capace di far capire alla persona spettatrice la liberazione di Ligabue quando, dopo tanta sofferenza e grazie alla sua ostinazione, finalmente urla: «Io sono un artista!».
di Roberto Dragone