Quella che propone la redazione di DassCinemag è una lista di alcune serie TV (assolutamente e volutamente parziale) che dal 2020 non vuole prendere necessariamente ciò che è ritenuto migliore. Quelle selezionate sono libere suggestioni, titoli originali che hanno come prima uscita mondiale quella all’interno di questo arco solare e che non tiene conto di stagioni che siano successive alla prima.
Ogni serie si porta dietro una scelta strettamente personale così come è personale il parere che ne dà l’autore, colpito, per una ragione o per un’altra, dall’opera che ha deciso di inserire qui di seguito.
High Fidelity
Di High Fidelity ne esistevano già due versioni: il romanzo di Nick Hornby (1995) e il film di Stephen Frears (2000). Ma non c’è due senza tre e quando quest’anno è uscita la serie tv, la sensazione è che se ne sentisse effettivamente la mancanza, quasi il bisogno. Questo perché a vent’anni dalla pellicola, ma soprattutto a venticinque dal romanzo, vengono rimescolate perfettamente le carte in tavola, per offrire allo spettatore di vecchia data l’equilibrio perfetto tra l’accoglienza del rewatch e l’eccitazione della novità: Rob non è più un uomo, ma è la fantastica Zoë Kravitz, la vicenda non è più ambientata a Londra, bensì a New York e sono poi presenti una miriade di altre variazioni sull’opera originale, che contribuiscono a svecchiare ulteriormente High Fidelity senza però intaccarne l’essenza originaria.
La costante resta ovviamente l’alta fedeltà e la protagonista indiscussa è ancora una volta la musica, che non accompagna soltanto le vicende dei personaggi, ma si fonde con esse, mentre un intricato e intrigante puzzle di flashback tiene incollati allo schermo, con la voglia di oltrepassarlo. High Fidelity è infatti soprattutto una serie che abbraccia lo spettatore e arriva dritto al cuore, scaldandolo e a volte spezzandolo anche, ma mai quanto la notizia della sua cancellazione, giunta inesorabile a tarpare le ali ad uno dei prodotti più interessanti del 2020.
di Lavinia Flavi
La regina degli scacchi
Le statistiche scosse dalla serie Netflix La regina degli scacchi sono incredibili: la vendita di scacchiere ha subito un’impennata, così come sono aumentate le ricerche di approfondimento sulle tecniche di gioco e addirittura il romanzo da cui è tratta la serie è tornato in classifica dopo quasi quarant’anni dalla sua uscita. Sono numeri importanti che provano quanto il pubblico abbia amato il titolo, ora diventato una delle serie di punta del colosso streaming. È tutto molto curioso per una serie che, sì punta a un racconto avvincente, ma lo fa attraverso una messa in scena ricercata, che strizza l’occhio al cinema. Anya Taylor-Joy interpreta la protagonista, un personaggio sfaccettato, una donna problematica in un mondo di uomini.
Lei è una scacchista geniale, un talento naturale che ha intenzione di scalare le classifiche del mondo e battere i campioni internazionali. Per una scelta narrativa ben precisa, le psicologie dei personaggi rimangono in superficie, poiché la serie si concentra sul riscatto della protagonista e le sfide che dovrà affrontare. Per questo motivo a colpire è soprattutto la regia, capace di raccontare le sfide di scacchi con soluzioni sempre diverse, le quali trasformano semplici partite di scacchi in sfide tesissime. Poi è interessante la costruzione del mondo degli scacchi professionisti: osservare la caratterizzazione dei personaggi (gli scacchisti come rockstar) e vederli struggersi alla ricerca di nuove strategie. Insomma, La regina degli scacchi coglie il segno, così tanto da essere causa di un’ascendente inaspettata sul pubblico. Sicuramente, tra le serie più importanti, ed eleganti, dell’anno.
di Roberto Dragone
Normal People
Chiunque si sia accostato alla serie TV di Normal People è probabilmente sceso a patti con il fatto che ci sia un ‘io’ prima della visione e un ‘io’ dopo la visione. Un ‘io’ che prima di calarsi fugacemente nelle vite di Marianne e Connell (a meno che non avesse già letto l’omonimo pluripremiato romanzo del 2018 di Sally Rooney, qui anche in sceneggiatura) di questa coppia di adolescenti irlandesi non sapeva nulla e ai quali non chiedeva nulla. Poi però inizia a saperne praticamente tutto, capta un mondo intero dai modi in cui si scrutano (che scoperte emozionanti Paul Mescal e Daisy Edgar-Jones!), si sfiorano, si attorcigliano, si separano, si scansano, crescono, cambiano, odiano, amano sulla regia di Lenny Abrahamson e Hettie Macdonald che cattura nella bellezza di immagini strazianti l’esplosione e l’implosione di un sentimento che ferma i groppi in gola.
E quindi questo ‘io’ inizia anche a pretendere da Marianne e Connell, che ora non sono più adolescenti e si avviano allo spaventoso impatto con la vita adulta che è piena di opportunità, sì, ma anche così piena dei terrori dell’ignoto. Dei “ma poi come faremo?” se la vita assieme ha l’odore del sesso e dei risvegli mattutini ma con l’intensità da fiaba di quell’adolescenza che è tramontata sotto i nostri occhi (come ha fatto a sfuggirci così?) e lascia i residui di un amore troppo vero per arrivare così presto. Però ora tocca al futuro, no? Abbiamo vissuto e continueremo a farlo, anche se questo non significa necessariamente insieme. Ecco, non siamo più gli stessi, abbiamo l’incanto della realtà con noi, l’anima s’è mangiata un pezzo di cuore.
di Alessio Zuccari
Tiger King
Accanto a serie dai nomi più famosi come La regina degli scacchi e La casa di carta, sul podio delle serie Netflix più viste in questo 2020 si trova anche Tiger King (sottotitolo: Murder, Mayhem and Madness). Rilasciata sulla piattaforma a fine marzo (in piena pandemia), il docu-drama ha subito conquistato decine di milioni di persone. Il motivo del successo forse è da ritrovare nella trama dai risvolti decisamente imprevedibili: quello che in principio sembra un documentario su un personaggio eccentrico come Joe Exotic e sul mondo degli zoo privati di grandi felini presenti sul territorio statunitense, si trasforma in un racconto bizzarro che comprende faide tra animalisti, persone scomparse misteriosamente e battaglie combattute con cause legali.
I documentaristi Eric Goode e Rebecca Chaiklin si sono avvicinati incuriosisti a Exotic e si sono ritrovati tra le mani un mondo popolato da personaggi stravaganti e squilibrati. Tiger King riesce a dipingere un ritratto compiuto della follia esibizionista di Exotic, una personalità singolare (capricciosa e irascibile) perfetta per stare davanti la macchina da presa. Ma soprattutto il lavoro narrativo della coppia di registi coinvolge qualunque genere di persona spettatrice: merito anche del numero esiguo di episodi (sette, più un aftershow girato a distanza durante la pandemia), il ritmo del racconto è esemplare e ogni carta viene scoperta o approfondita nel momento giusto. Insomma, un racconto ottimo di una storia fuori di testa: la combinazione perfetta.
di Roberto Dragone
Unorthodox
Unorthodox è un racconto spiazzante come la ricerca di se stessi, come la fuga che la protagonista Esty compie all’inizio di questa narrazione. Una narrazione intensa che disarma il proprio pubblico per l’immensa fragilità con cui viene portato sullo schermo il vissuto umano della giovane ragazza. Raccontare la sensazione che si prova quando, dopo tanto tempo, si riesce finalmente a respirare è difficile. È difficile non cadere nel sentimentalismo, ma è anche difficile far percepire il dolore che quella prima “riemersione” provoca. Un dolore non solo dato dal primo contatto con qualcosa d’estraneo, come la libertà, verso cui si prova paura e incertezza. Un dolore, o meglio, bruciore, dato soprattutto dall’impossibilità di negare.
Quello che non si può negare è un’intera vita fatta, inevitabilmente, anche di momenti di felicità, nonostante il dolore. E ciò la protagonista lo esprime benissimo nel suo rifiuto di definire “prigione” l’ambiente da cui proveniva. Lo mostrano le sue espressioni, cariche di rabbia e frustrazione, ma anche le sue lacrime di fronte a una scelta che deve essere netta, ma che netta non può esserlo. Non può esserlo perché non si può non calcolare ciò che si ha intorno. E tutto questo lo palesa anche la difficoltà di fronte cui viene messo lo spettatore nel montaggio alternato tra ricordi e molteplici punti di vista di personaggi, che si fanno forza nella loro profonda umanità data da sfumature di colori differenti, che non sono totalmente né bianchi, né neri.
Unthodox è una miniserie di quattro puntate uscita su Netflix a fine marzo di quest’anno e, in mezzo ai vari prodotti usciti in questo anno così particolare, ma ricco di serie, seconde stagioni e film interessanti, spicca per il suo portato umano così reale da togliere il respiro.
di Macha Martini
We Are Who We Are
È indubbio che se esistesse un premio per la miglior serie del 2020 We Are Who We Are di Luca Guadagnino si troverebbe quantomeno sul podio. Diventato immediatamente una pietra miliare del coming of age, genere tra i più prolifici e laboratoriali degli ultimi anni, lancia volti nuovi e ne rilancia di più vecchi per raccontare le due facce dell’America, anch’essa alla ricerca di un’identità come i personaggi che popolano la serie. Per ospitare i giovani protagonisti e i loro genitori viene scelta un’ambientazione insolita: una base militare americana a Chioggia, un microcosmo che riproduce in scala la schizofrenia degli Stati Uniti, un luogo congeniale alle idiosincrasie dei personaggi, soffocati da quella che diventa la metafora dei limiti di una società che a furia di catalogare, di tracciare confini, ha delineato e delimitato anche le persone.
Gli unici in grado di pensare fuori da questi schemi imposti (da chi? Dall’alto o dal basso?) sono i giovani, gli adolescenti. Ed ecco che a loro viene assegnato il compito di guidare lo spettatore attraverso un percorso di crescita che si fa dunque condiviso, grazie a degli insegnamenti mai didascalici, provenienti da personaggi sicuramente non perfetti, ma per questo più veri. Guadagnino sfruttando sapientemente i tempi più dilatati di una serie, ci regala una perla che travolge come e forse addirittura più dei suoi precedenti lavori.
di Lavinia Flavi