Si sa, niente dura per sempre, soprattutto le cose belle. Per questo, anche una serie come Succession (trailer), destinata ad entrare nell’olimpo dei migliori prodotti tv dell’ultimo decennio, prima o poi doveva finire. L’ultima puntata è uscita, infatti, lo scorso 28 maggio su HBO (in Italia è interamente disponibile su Sky e NOW) segnando il termine della complessa saga familiare sviluppatasi nel corso di cinque anni, dal 2018 al 2023.
La serie creata da Jesse Armstrong e prodotta da Will Ferrell e Adam McKay ruota intorno a un concetto presente fin dal titolo, la successione. La storia è, infatti, quella della famiglia Roy (ispirata ai Murdoch), che controlla uno dei più grandi conglomerati di media e intrattenimento degli USA, la Waystar-Royco. Il capostipite, nonché direttore di tutta l’azienda, è Logan (Brian Cox), arrivato ad un’età per cui è tempo di scegliere un “erede al trono”, scatenando una guerra interna tra i figli Kendall (Jeremy Strong), Roman (Kieran Culkin) e Siobhan “Shiv” (Sarah Snook) ricca di inganni, litigi e tradimenti.
La quarta stagione ci aveva fatto credere per un breve tempo che tutto potesse risolversi, che i fratelli potessero rimanere uniti e portare avanti l’azienda, distaccandosi dalla figura tirannica che era stato il padre. L’ultimo episodio, invece, ci riporta alla realtà. È la resa dei conti: il consiglio d’amministrazione della Waystar deve riunirsi per decidere se passare il timone allo svedese Lukas Matsson (Alexander Skarsgård) ed essere rilevata dalla GoJo, o se lasciare tutto in famiglia, eleggendo uno dei fratelli come futuro CEO. Torna quindi il corteggiamento degli shareholders, i tentativi di accordo basati sulla parola, nella speranza che nessuno cambi idea all’ultimo momento, facendo saltare patti e promesse. In un’ora e mezza di episodio, che si snoda fra New York e le Barbados (dove assistiamo a un bellissimo momento in cui i tre protagonisti ridono e scherzano, come a tornare bambini, in una sorta di quiete prima della tempesta), la tensione cresce, per esplodere nel quarto d’ora finale, in cui cadono le maschere e ogni personaggio si rivela per quello che è o che è diventato nel corso del tempo.
Logan è sempre stato il sole attorno al quale orbitavano tutti gli altri pianeti, così potente da influenzarli ed esercitare la supremazia su di loro anche dopo la sua uscita di scena. Promettendo ad ogni figlio nel corso degli anni la posizione al vertice dell’azienda, il patriarca ha alimentato una sete di potere destinata ad esplodere, prima o poi, incurante dei legami di sangue. Ed ecco che alla fine del decimo ed ultimo episodio della quarta stagione vediamo Kendall perdere la pazienza, strepitare, rivendicando una promessa fattagli all’età di sette anni, ed arrivare alle mani con i fratelli che, nel mentre, gli voltavano le spalle. La sua trasformazione nella figura del padre sarebbe stata imminente se Shiv, in quel momento l’ago della bilancia, non gli avesse votato contro. In quella che potrebbe essere considerata una tragedia shakespeariana come Macbeth o, più similmente, Re Lear, Siobhan, nei panni di una vera e propria Lady Macbeth, compie la mossa più intelligente per lei: consapevole ormai di non riuscire a vincere, decide di scegliere il proprio antagonista, legandosi nuovamente al marito, Tom Wambsgans (Matthew Macfadyen), ora ufficialmente CEO americano della nuova fusione, e al contempo liberando i fratelli dall’ombra del padre.
Emblema, forse, di questa liberazione è proprio Roman. Lo vediamo in una delle ultime scene seduto a un bancone, intento a bere un Martini, con una smorfia sul volto: un sorriso di sollievo o di rassegnazione? Certo è che la pressione esercitatagli dal fantasma del padre è ora destinata a svanire, nonostante rimangano i traumi infantili che lo hanno segnato fino a quel momento. Il discorso finale fatto al fratello sulla consapevolezza di “non essere nulla” indica la sua crescita definitiva come personaggio, una visione nichilista dei loro ruoli, pur sempre rimpiazzabili nonostante il cognome.
Alla fine, nessuno dei tre fratelli voleva davvero quella posizione, erano perfettamente consapevoli del fardello che avrebbe comportato un ruolo simile e di come questo avesse allontanato sempre più loro padre, che li vedeva solamente come pedine da muovere per i suoi interessi. Il loro desiderio, invece, era quello di essere visti da lui, di ricevere la sua approvazione.
Il quarto fratello più grande, proveniente da un altro matrimonio, Connor (Alan Ruck), lo aveva capito da tempo. Bistrattato e spesso dimenticato dal resto della famiglia, negli ultimi episodi si dedica a sé stesso, a sua moglie Willa (Justine Lupe) e al loro futuro, consapevole della sua posizione all’interno del nucleo familiare (non a caso sorprende la sua reazione alla notizia della morte del padre: «He never even liked me»). Connor, al contrario dei fratelli, non ha bisogno dell’approvazione del padre, né dell’affetto dei cari («The good thing about having a family that doesn’t love you is to learn to live without it»), e glielo dice chiaramente nel secondo episodio dell’ultima stagione, in un dialogo rassegnato e triste, ma carico di significato: «You’re all chasing after dad, saying “love me, please, love me. I need love, I need attention.” Your needy love sponges. And I’m a plant that grows on rocks and lives off insects that die inside of me».
Ciò che ha reso Succession così popolare e amata dal pubblico – con un coinvolgimento, almeno negli Stati Uniti, simile a quello che era stato per Il Trono di Spade – è sicuramente la brillante scrittura di Jesse Armostrong e il team di sceneggiatori, in grado di unire dialoghi taglienti e concisi, spesso anche volgari, a scene di indubbia serietà. Il risultato è una commistione tra comico e drammatico in grado di rendere più avvincente la narrazione degli affari, che altrimenti a lungo andare potrebbe tediare lo spettatore. Oltre a questo, bisogna menzionare anche la meravigliosa colonna sonora (firmata da Nicholas Britell), la regia e lo stile di ripresa, che in modo quasi documentaristico, ricorre spesso a piani sequenza e macchina a mano. Questa, intercettando sguardi, gesti e dettagli, guida lo spettatore nella comprensione laddove le battute dei personaggi non arrivano. Il cast contribuisce sicuramente alla fama dello show con interpreti in grado di suscitare un’empatia inimmaginabile per personaggi oggettivamente spregevoli ma, dopotutto, anche perfettamente umani.
Succession è un prodotto meraviglioso in grado di indagare con massima profondità e accuratezza i legami umani e, soprattutto, quelli familiari, nei quali è sempre possibile riscontrare similarità con la propria, anche nel caso in cui ad essere protagonisti sono, come in questo caso, dei ricchi spietati. Misurata alla perfezione, battuta dopo battuta la serie dimostra di riuscire a terminare al momento giusto, senza risultare incompleta o, al contrario, eccessivamente ridondante. Ed anche questo è un pregio che non sempre è facile riscontrare nella serialità televisiva di oggi.
Con un finale dai toni estremamente amari, si chiude una critica pungente alla nostra società e al capitalismo americano, una tragicommedia con vincitori e vinti. Come insegna Logan, per vincere bisogna eliminare i propri avversari, bisogna essere killer. Anche il perdente più insospettabile può alla lunga diventare pericoloso, esattamente come Tom, che, sottovalutato da tutti, finisce per salire al comando, guadagnandosi la corona.