The Spirit è una scultura in bronzo alta 3.7 metri, si trova allo United Center di Chicago, Illinois, e raffigura lo spirito di una leggenda moderna, che balza in aria come un supereroe, ma ha le sembianze di un uomo: Michael Jordan. Ciò che The Last Dance (qui il trailer), freschissima docu-serie Netflix, mostra, è dunque l’uomo che si cela dietro il fenomeno.
Per assolvere a questo compito Michael Tollin, ideatore di The Last Dance, elabora una docu-serie che ripercorre le principali tappe sportive della carriera di Michael Jordan, commentata dai diretti interessati che hanno preso parte a The Last Dance; come suggerisce il titolo infatti, l’ultimo ballo si riferisce all’ultima annata prima dell’addio di Jordan e soprattutto prima dello smembramento degli Chicago Bulls, squadra, e non singolo, capace di vincere sei titoli NBA nell’arco di otto annate (dal 1991 al 1998).
Un racconto corale che, grazie all’ausilio di immagini di repertorio in parte inedite, definisce la complessità di un uomo egocentrico e ipercompetitivo, che ha fatto leva sul suo carattere, sul suo straordinario talento e sulla sua determinante dedizione al lavoro per diventare uno degli sportivi più idolatrati di tutti i tempi. La costruzione dell’immagine da star al pari dei divi hollywoodiani è un interessante spunto di riflessione dal momento che Michael Jordan, senza il supporto promozionale dei social network ad esempio, giunse ad essere un vero e proprio brand mondiale sotto tutti i punti di vista e un fenomeno socioculturale, inizialmente esclusivamente grazie al suo talento nel giocare a basket e alla sua personalità.
Ciò che The Last Dance indaga tra le altre cose è proprio come Michael Jordan sia diventato succube del suo stesso successo planetario. Soffrendo una tensione costante alternata tra il rapporto con gli altri, la pressione mediatica e dei fans, dai quali era dipinto con ingenua perfezione, e per cui era condotto al punto di essere mortificato e accusato per ogni difetto che mostrava, ricadendo con i piedi per terra dopo un plateale salto a canestro; puntualmente però si evince come Michael tornasse a indossare il numero 23 sul campo e a scrollarsi di dosso ogni questione.
È proprio il rettangolo di gioco ad occupare la maggior parte delle immagini della docu-serie, così come della vita di quegli anni di Michael Jordan, in cui erano imprescindibilmente presenti i suoi compagni di squadra, ai quali viene dato grande rilievo nella strutturazione del racconto. Personaggi più o meno controversi come Dennis Rodman e Scottie Pippen fecero parte del background del campione, che visse con loro forti legami e dissapori, e che lo raccontano con un’ammirazione a volte amara per la prepotenza che ostentava nei loro confronti, ma che a distanza di anni è ritenuta utile guardando ai risultati raggiunti. Dunque The Last Dance ci mostra come MJ possa essere trasposto come esempio umano a dimostrazione del fatto che per raggiungere traguardi sensazionali è necessario sacrificare delle componenti della propria vita, a dimostrazione che è sbagliato idealizzare i propri miti, a dimostrazione che l’instancabile etica del lavoro e la determinazione pagano.
The Last Dance, la docu-serie sportiva del momento diretta da Jason Hehir, è disponibile su Netflix dove sta raggiungendo numeri da capogiro proprio come le statistiche del suo protagonista, il più grande giocatore di basket di tutti i tempi.