Una figura che emerge dall’acqua di una vasca da bagno, il trucco sbavato sul viso, le imprecazioni a cui si abbandona, il disordine di una stanza di Parigi, bottiglie di alcol poste sulla scacchiera al posto delle pedine, due pillole buttate giù: The Queen’s Gambit – tradotto in italiano con La regina di scacchi (trailer), pur facendo riferimento ad una tipica apertura del gioco, “il gambetto di donna” – si apre con l’apoteosi del caos e della sregolatezza, elementi che si discostano notevolmente dalla quiete e dalla razionalità che caratterizza il gioco degli scacchi. Beth Harmon (Anya Taylor-Joy) ci appare subito come una giovane donna vittima di quei vizi che potrebbero rovinarle tutto: la carriera, la vita, il futuro. Tutt’altro che la regina degli scacchi che il titolo ci suggerisce.
È un inizio frenetico che si arresta nel momento in cui la narrazione lascia spazio al flashback che, per tutte le sette puntate di cui è composta la miniserie, ci narra la vita della nostra protagonista: Beth Harmon è un’orfana di madre che trascorre l’adolescenza nella Methuen Home for girls, un orfanotrofio del Kentucky. Silenziosa, dallo sguardo assente e perso nel passato che si è appena lasciata alle spalle, la vita di Beth incomincia ad oscillare tra l’amicizia con Jolene (Moses Ingram) – un’altra ragazzina dell’orfanotrofio, che diventa la sua unica amica d’infanzia -, i sedativi che le vengono somministrati giornalmente e una passione che inizia a sbocciare: quella per gli scacchi, fomentata grazie anche all’intervento del custode dell’orfanotrofio, il signor Shaibel (Bill Camp). La vita di Beth, da quel momento in poi, sarà un continuo alternarsi di successi e tracolli, di vittorie e sconfitte, di spietata razionalità ed irrazionalità, di grandi ambizioni e momenti in cui sembra essere sul punto di mollare tutto.
I protagonisti indiscussi de La regina degli scacchi, targata Netflix, sono Elizabeth Harmon, che incarna l’essenza stessa dell’enfant prodige, e ovviamente gli scacchi, in un connubio indissolubile che porta lo spettatore a pensare che l’uno non possa esistere senza l’altra. Beth è una donna ambiziosa e sicura di sé, che dalla vita pretende solamente una cosa: diventare gran maestro degli scacchi e battere il giocatore migliore del mondo, Vasily Borgov (Marcin Dorociński). Sembra che le importi pochi del resto, del mondo attorno a sé e dei legami che nel corso della storia instaurerà e che verranno sempre messi in secondo piano, prediligendo il suo amore per gli scacchi.
Beth è un personaggio complesso e contraddittorio, quasi decadente, ossessionata dal suo amore per il gioco: lì, sulla scacchiera, può controllare tutto quel che avviene a differenza della vita reale, dove sembra non avere nessun controllo. In ogni puntata, Beth compie un passo in avanti nella sua scalata verso il successo e, allo stesso tempo, avanza anche nella lotta contro se stessa, contro i fantasmi del suo passato che infestano incubi notturni e pensieri ad occhi aperti. Ma lei, come detto dallo stesso Borgov, non conosce la sconfitta perché è una sopravvissuta: se a primo impatto può apparirci come un personaggio negativo, non possiamo non empatizzare con lei e col suo desiderio di rivalsa, nonché col riscatto finale che la farà trionfare in un mondo dominato da uomini.
Ideata da Scott Frank e Allan Scott (ricordiamo soprattutto il primo per le sue due candidature all’Oscar per le sceneggiature di Out of Sight e Logan), la miniserie si sviluppa su due piani paralleli: quello strettamente legato alle vicende di Beth e al suo sviluppo psicologico, e il contesto. Ci troviamo, infatti, negli Stati Uniti degli anni sessanta, nel pieno della Guerra Fredda contro l’URSS. È un dettaglio che fin dal primo momento non può essere trascurato, che interviene continuamente nelle vicende personali della protagonista sin da quando decide che il suo unico scopo nella vita sarà diventare gran maestro degli scacchi. Se in un primo momento ci viene presentata una visione americano-centrica della Guerra Fredda, anche le tensioni politiche e sociali si dissolvono in quella passione-ossessione che accomuna Beth Harmon ai suoi avversari sovietici, gli scacchi, che dunque, diventano uno strumento per avvicinare modi di pensare e di vedere il mondo completamente opposti, che vengono messi in secondo piano in favore di una competizione all’insegna del rispetto reciproco e dell’ammirazione per il talento altrui.
Con una sceneggiatura delicata e profonda, che non lascia nulla al caso, Beth Harmon diventa anche e soprattutto il simbolo di una lotta femminista che non si abbandona a frasi stucchevoli, a slogan scontati e cliché. In un mondo apparentemente chiuso come quello degli scacchi, in particolar modo durante gli anni sessanta, le scacchiste sono relativamente poche e spesso bistrattate dagli uomini. Beth, però, non si arrende sotto il peso dei giocatori che le dicono che non è abbastanza brava per affrontare i suoi avversari, al contrario, prosegue stoicamente per la propria strada, senza tentennamenti di alcun tipo, storcendo il naso quando, per esempio, i giornali la reputano un prodigio non per il suo talento in quanto giocatrice, ma in quanto semplicemente donna gettata in una vasca di squali. La piega femminista della serie non è riuscita a sottrarsi ad alcune critiche, in particolar modo quelle di alcune giocatrici – tra cui Jennifer Shahade – che hanno affermato che la miniserie avrebbe avuto più impatto se avesse narrato la storia di una reale giocatrice di scacchi. Critica legittima, ma impossibile da attuare con l’adattamento fedele di un romanzo, The Queen’s Gambit di Walter Tevis (già nel 2008 ci sarebbe dovuto essere un adattamento diretto da Heath Ledger, ma l’attore morì lo stesso anno).
La regina degli scacchi è un successo clamoroso: la sceneggiatura, la complessità di Beth e la sua estrema umanità, la costruzione psicologica di tutti i personaggi che circondano la protagonista, la fotografia curata in ogni suo dettaglio e le scenografie hanno fatto sì che, a ventotto giorni dalla messa in onda, fosse la serie esclusiva Netflix con sceneggiatura non originale più vista di sempre. Accolta con favore sia dall’audience che dalla critica – su Rotten Tomatoes ha ottenuto un punteggio di 8/10 e una percentuale di approvazione del 100% -, nemmeno la comunità scacchistica ha potuto fare a meno di esprimere la propria opinione: il campione del mondo Magnus Carlsen le ha dedicato un post su Instagram e una valutazione di 5/6, mentre il gran maestro britannico Nigel Short, vicepresidente della Federazione Internazionale degli Scacchi, ha rilasciato a Beth Harmon un “certificato virtuale” di gran maestro. Complice, sicuramente, la supervisione di Bruce Pandolfini e il campione del mondo di scacchi Garry Kasparov, che hanno preso parte al progetto.
Seppur definita irrealistica da alcuni, La regina degli scacchi è una serie consigliatissima per chi vuole vedere sullo schermo un prodotto che racchiude in sette puntate una descrizione psicologica dettagliata, ambientazioni ed atmosfere tipicamente anni sessanta e l’ascesa di una figura femminile unica nel suo genere. E, perché no, anche per chi vorrebbe avvicinarsi al complesso ed affascinante mondo degli scacchi.