Con All the Bright Places (2020, qui il trailer), tratto dall’omonimo romanzo di Jennifer Niven, il regista statunitense Brett Haley si schiera dalla parte dei freak e dipinge la tragica storia d’amore di due adolescenti dell’Illinois. Theodore Finch e Violet Markey sono la coppia apparentemente ideale dal passato già burrascoso che condividerà momenti di ineffabile felicità tra carezze, baci e abbracci. Lui è l’avventuriero che tutti vorremmo essere, ribelle e anticonformista, fuori dalle logiche categorizzanti del sistema scolastico americano, vive con la sorella e una madre che non vede mai, può sempre contare sugli amici di una vita, aveva un padre alcolizzato e violento. Lei è la dolce metà che manca ad ognuno di noi, dolce e sensibile, fuori dall’ordinario, vulnerabile, perché sconvolta purtroppo dall’incidente d’auto che ha provocato la morte della sorella maggiore, Eleonore. Aspirante suicida, Violet, interpretata dalla bellissima e lucente Elle Fanning, sarà salvata dall’altro raggio di sole nascente non privo di ombre che è Finch, a cui presta il volto il giovanissimo Justice Smith.
Nonostante un inizio veramente evocativo, in cui troviamo i due protagonisti in piedi sul muretto del fatidico ponte dove è avvenuto l’incidente di Eleonore, il film lascia sempre più emergere le discrepanze dei suoi personaggi che perdono progressivamente la loro “brightness”. L’intera vicenda risulta così un insieme di scene, sicuramente di grande pathos e commozione – specie per chi ha vissuto momenti tragici simili – che culmina con il messaggio morale di Violet. È idealismo puro o una prospettiva piccolo-borghese idealizzante? Finch e Violet, per quanto siano seducenti e affascinanti nei vari momenti di idillio (il lago, il bosco, il treno abbandonato), appaiono splendidi e coerenti con le loro idee dall’inizio alla fine di quella che, tuttavia, diverrà tragedia. Non si scompongono mai, se non per un progetto scolastico che consiste nel raccontare alla classe i luoghi più belli dell’Illinois. Il loro compito è stare insieme, o almeno così lo hanno deciso il regista Brett Haley e la scrittrice, qui anche sceneggiatrice, Jennifer Niven.
Esaminando ulteriormente in dettaglio Finch, risulta che questo personaggio sia davvero troppo per la sua età: farebbe ingelosire qualunque sognatore o bravo ragazzo del quartiere, è sempre sorridente, sa come parlare alle novelle suicide, conosce già tutti i posti possibili e immaginabili dell’Illinois. Tuttavia allo stesso tempo è problematico in quanto è solo, tiene attaccati sui muri della cameretta post-it con su scritte frasi della grande Letteratura inglese. In questo modo il film perde efficacia e luminosità, perché Finch è l’eroe adolescente già ultimato di suo. In lotta con un passato di violenze subite, ricerca una qualche elegia del vivere lungo strade e laghi di un Illinois incontaminato e ameno. Tuttavia non si accorge, come del resto gli autori, che la risposta al suo dover essere necessariamente extra ordinario è già radicata in lui fin da quando lo vediamo correre in strada ad inizio film (una corsa simbolica, visto che Finch corre per fuggire il passato e salvare il futuro, ovvero Violet).
La sacralità degli affetti, l’importanza dei sentimenti e dell’integrazione, l’uscir fuori dal tran-tran quotidiano, il sognare ad occhi aperti e il ridere perché la vita è piena di momenti felici sono grandi temi di rilievo nel film che in definitiva risentono di una contraddizione in termini: l’ostentata brightness di Finch contraddetta dalle ombre identitarie che sfoceranno nell’epilogo. Anelito di perfezione? Ansia di coerenza? Probabilmente sì. Gli esiti speranzosi saranno raccolti da Violet e dalla comunità dei freak affinché non diventino “bright” soltanto i luoghi ma anche le persone.