Una rassegna di cinema documentario. Un evento culturale. Una manifestazione che riunisce un paese. Potremmo considerarlo tante cose ma, in particolar modo, lo Storie Parallele Film Festival, giunto quest’anno alla sua sesta edizione, è un’occasione per l’intero popolo lucano. Tenutosi nell’ambientazione medievale e quasi fiabesca della città di Salandra, in provincia di Matera, Storie Parallele è un festival indipendente nato da un’idea del direttore artistico Nicola Ragone, affiancato dai collaboratori Carmine Cassino, Carmine Iuvone, Giuseppe Ragone. Nei tre giorni della sua durata (dal 22 al 24 settembre 2023) ha visto avvicendarsi proiezioni di lungometraggi e cortometraggi documentari, ma non solo: hanno avuto luogo dei dibattiti, una mostra fotografica e delle installazioni artistiche, all’insegna della pluralità di forme culturali. Il trait d’union di questo insieme di idee è la centralità dell’elemento locale: è un festival, infatti, che parla a Salandra e alla Basilicata, e ci riesce grazie alla cooperazione di un gran numero di volontari locali (per lo più molto giovani) che credono nell’energia del proprio paese, senza compromessi o ingombranti aiuti dall’alto.
Non è, infatti, solo un riconoscimento identitario di un paese che si confronta con sé stesso, ma un vero e proprio riscatto per l’Italia dimenticata dalle grandi narrazioni. La Basilicata si riappropria dei suoi talenti, li coccola nella loro terra di origine e dà loro un’opportunità unica di mettersi alla prova dove sono cresciuti. Luoghi come questi sono fin troppo abituati a veder fuggire i propri figli con le sensibilità più spiccate, che non riescono ad emergere in certi contesti isolati: l’urgenza, quindi, di un’operazione culturale del genere, messa in piedi proprio da quei talenti stufi di dover cercare l’oro nelle grandi metropoli, è quella di far rinascere la speranza, di riaccendere la fiamma dell’arte e della cultura dove sembrava ormai destinata a spegnersi da tempo.
Realtà come quella di Storie Parallele Film Festival sperimentano, rischiano, osano fino alla fede più cieca nel proprio lavoro, consapevoli che quello che stanno facendo è vitale per il materiale umano dei loro compaesani. Sbaglieremmo se pensassimo che sono luoghi poveri di creatività e ispirazione: la materia (come la definisce Rocco Papaleo in un’intervista, ospite del festival nel 2022) è ben presente, e «gli artisti sono delegati a trasformare questa materia, nella peggiore delle ipotesi, in entertainment, nella migliore, in arte sublime». Per far rinascere questi borghi, è necessario ravvivare quella materia, così come per far riaffiorare una nuova creatività in Italia, è fondamentale dar voce ai dispersi, agli esiliati, a coloro che non hanno mai potuto esprimersi se non fuggendo dalla loro patria e quindi da sé stessi.
Ma, come dicevamo prima, lo Storie Parallele Film Festival è anche una vittoria per una comunità piccolissima come quella salandrese, di appena duemila abitanti. Si sa, la vita nei paesini, spesso, non è certo la più dinamica e stimolante soprattutto per i più giovani, costretti a una vita noiosamente monotona e priva di particolari sfizi, lontana dagli svaghi delle grandi città. Gli unici momenti di raccoglimento sociale sono più che altro le feste patronali (in questo caso la festa di San Rocco), legate però a valori tradizionali ormai distaccati dalle nuove generazioni. È in questo contesto che da sei anni il festival è una rivoluzione totale nella vita di Salandra e, di conseguenza, di tutti i paesini vicini: quella che a un occhio esterno può ingenuamente sembrare una piccola realtà, per i salandresi è un evento sociale quasi miracoloso, festeggiato con gran fermento e atteso con palpabile trepidazione nei giorni precedenti al suo inizio.
Grazie ad ospiti di richiamo (Stefano Fresi, Victor Kwality e Francesco Motta quest’anno) e ad attività che coinvolgono tutta popolazione, si crea una vera e propria attesa, con la promessa di un rinnovamento catartico della propria società. La parola chiave di questa edizione è stata contaminazione: termine inteso, però, in senso positivo, non di intreccio dissoluto. Una contaminazione anch’essa necessaria, tra fedeltà sacra alle tradizioni e apertura all’innovazione, tra generazioni vecchie e nuove, tra nuovi modelli di vita e nostalgia di quelli passati, tra orgoglio per le proprie radici e apertura all’esterno. Una fiduciosa interconnessione con le altre realtà simili alla propria, per combattere lo spopolamento dei piccoli borghi, ma anche una calorosa accoglienza ai turisti e agli ospiti da tutte le parti d’Italia.
Di contaminazione possiamo parlare, a livello stilistico, anche per una delle opere più interessanti proiettate al festival: Il mondo è troppo per me, lungometraggio documentario diretto da Vania Cauzillo, racconta la storia di Vittorio Camardese, chitarrista lucano attivo dagli anni ‘50-’60 estremamente influente per gli artisti e gli intellettuali della sua generazione ma dimenticato dai posteri. Il film, infatti, presenta un’alternanza tra scene animate, filmati ed immagini di repertorio dagli archivi Rai e dell’Istituto Luce, e interviste a conoscenti e familiari, tentando di ricostruire la stravagante e complessa figura del musicista potentino attraverso più stili grafici.
Camardese, infatti, era un uomo introverso, remissivo, ma la sua straordinaria sensibilità musicale e la tecnica da lui inventata del tapping (un particolare modo di suonare la chitarra percuotendo le corde, e non pizzicandole) lo rese subito estremamente affascinante per il mondo culturale del suo tempo. Frequentò i principali locali jazz della Roma del tempo e partecipò ad alcune trasmissioni televisive: non raggiunse però mai veramente il grande successo, nonostante le potenzialità che tutti gli riconoscevano, per la sua renitenza alle luci della ribalta e per la sua sensazione costante di essere stato sopravvalutato da tutti i suoi ammiratori (tra cui anche personaggi illustri come la regista Lina Wertmuller, che aveva provato a coinvolgerlo per la musica di un suo film). Vittorio Camardese è stato una vera anima della sua terra: quell’umiltà e quella semplicità che contraddistinguevano la società borghese lucana degli anni ‘30 appartenevano a lui, che non aveva mai fatto uno sfrontato e orgoglioso esibizionismo della sua dote unica e insolita. Un immenso talento nascosto per molto, troppo tempo, al mondo intero, e rivelato, dopo una recente riscoperta su internet, dalla regista del documentario, che propone un affascinante e curioso ritratto di una delle figure musicali più influenti della Basilicata.