Still Here: intervista a Suranga Deshapriya Katugampala

Still Here intervista a Suranga Deshapriya Katugampala

In questa intervista, Suranga Katugampala (1987, Negombo, Sri Lanka) ci racconta Still Here, il suo ultimo film presentato alla diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma nella categoria Alice nelle Città. “Una favola nera”, come lui stesso la definisce, in cui due mondi geografici apparentemente inconciliabili, come Corvetto (Milano) e Slave Island (Colombo), si mescolano armoniosamente. Un film in cui lo spazio urbano non fa solo da contesto ma diventa il vero protagonista capace di esemplificare perfettamente il fenomeno della gentrificazione dei quartieri popolari, con le sue strutture, con le luci a neon e con le bizzarre figure che lo popolano. Attorno ad esso, gravitano le vite dei suoi abitanti che si portano dietro altrettanti misteri. Come quello di Nico, una madre che, prima di sparire, decide di affidare i suoi due figli a Sunil. Il silenzio delle strade, la solitudine dei boschi e i passi leggeri delle persone che li calpestano diventano l’emblema del movimento cittadino in delle realtà che, sebbene abbandonate e dimenticate dalla politica, conservano un potenziale di fascinazione potentissimo, che non ci permette di distogliere lo sguardo.

Qual è il ruolo dello spazio urbano nel film e quale il tuo rapporto con quest’ultimo?

Ho fatto un film prima di questo, Per un figlio, con cui sentivo di aver concluso un certo capitolo del mio desiderio di fare cinema. Sentivo, dunque, il bisogno di avere a che fare con una grande città, perché sapevo di poter trovare lì le vite che stavo cercando. Il mio primo pensiero è andato alla comunità srilankese, non perché volessi fare un film su di loro, ma perché ha sempre rappresentato per me una base d’appoggio importante. Sopratutto se si decide di girare in una città nuova è fondamentale crearsi una rete di contatti. E sapere che ci sono delle persone che parlano la mia lingua madre è già un punto di partenza. Di conseguenza, la mia ricerca si è concentrata sul trovare il centro urbano che li ospita maggiormente. Così sono venuto a sapere di Milano e lì mi sono trasferito, nel quartiere Corvetto. Una realtà molto complessa, perché è un quartiere popolare che ha vissuto l’immigrazione dal sud Italia negli anni ’70-’80 e che adesso sta vivendo quella dal sud del mondo. Così, lentamente, ho iniziato a conoscere le persone del quartiere e la loro vita, senza sapere ancora perfettamente il film che avrei voluto fare. Per questo processo, mi è stato di grande ispirazione La paura mangia l’anima di Fassbinder. Infatti mi dicevo: “Non è possibile che a Berlino ci fossero persone di questo calibro”. E mi chiedevo: “Chissà in Italia dove sono?”. Ed è a Corvetto che ho trovato queste vite, di cui mi sono subito innamorato e in cui mi sono immediatamente immerso. Infatti, ad un certo punto, mi ero talmente legato ad esse che non sapevo più dove stavo andando e a cosa tutto quello mi avrebbe portato. Ma poi è stato il quartiere a suggerirmi una strada, che era quella della grande storia della gentrificazione dei quartieri. E, allora sono partito da lì per capire come raccontarla senza farlo in modo classico, senza seguire una storia lineare o con un dramma perfetto. La mia volontà era di farlo in modo sporco e graffiato, attingendo dal cinema indipendente americano, Shirley Clarke o gli inizi di Jim Jarmusch, per esempio. Sapevo che questa scelta avrebbe avuto le sue difficoltà dal punto di vista distributivo e sopratutto del pubblico, che è sempre in cerca di una storia chiara e comoda. Quindi, ho preso quel quartiere con questo intento. Avevo questa idea di un bar, come l’ultimo superstite del quartiere, dove si radunavano ubriaconi e altri personaggi. Quindi, un luogo che fosse un po’ il centro del mio film. Così ho capito che questo si prestava veramente bene a un racconto dove i personaggi veri non fossero le persone ma gli spazi, come se essi respirassero, ridessero, piangessero e inquietassero. Così, lo spazio e la dimensione urbanistica hanno lentamente preso forma, diventando il vero protagonista.

Ma si può davvero fare un film senza avere fin dall’inizio una idea precisa?

Ci piace dire che vai a girare senza le idee, ma in realtà ce le hai, sennò sarebbe impossibile. In questo cinema, però, non è tanto importante avere un’idea sulla trama quanto quella sul cinema che vorrai fare. La mia era quella di lavorare con delle persone vere e con uno spazio. All’inizio non sapevo che sarebbe stato un bar, l’importante era che fosse un luogo di raduno per le persone del quartiere. Poi, girando per Corvetto, mi è venuto in mente il bar, perché alla fine rappresenta un micromondo in cui perdersi. Passare del tempo in un bar è in fondo il modo più semplice per scoprire velocemente le abitudini di un quartiere che non si conosce, come è stato Corvetto per me. In realtà, inizialmente, il bar era una polleria al centro del quartiere, che noi abbiamo immaginato di trasformare in un bar temporaneo. Una vera e propria rigenerazione culturale di uno spazio bellissimo, con slogan e scritte anni ’90, completamente abbandonato, che sembrava uscito da un altro mondo, quindi perfetto. Così, ho chiesto agli scenografi di immaginare un percorso per trasformarlo. Quindi, insieme a loro e ad alcuni educatori siamo riusciti a farci un bar. Appena finito, lo avevamo reso uno spazio aperto, in cui facevamo proiezioni e invitavamo musicisti ad esibirsi liberamente. In questo modo, abbiamo capito che là dentro potevano accadere cose molto interessanti e abbiamo iniziato a riprendere.

Quali solo state le tempistiche e le difficoltà maggiori a girare il film all’interno di questo quartiere? Come hai gestito, per esempio, la mancanza quasi totale di illuminazione artificiale?

In realtà, a me piace molto lavorare di notte, perché mi permette di controllare la luce come voglio. Però, allo stesso tempo, sono innamorato della luce naturale, quando per naturale non intendo solo il sole ma anche quella cittadina. Inoltre, la notte è un laboratorio cinematograficamente interessante. Infatti, è il contesto perfetto se hai in mente di immergerti in un panorama da favola, quasi una favola nera. Avevo dei bambini, avevo una madre che si perdeva in una città, avevo un bosco, una palude e degli “ubriaconi”; tutti elementi da favola nera. Se pensi, per esempio, alla Bella e la bestia, anche lì c’è un quartiere, con degli abitanti che la vivono di notte e c’è un castello, che nel mio caso è rappresentato dalla città, che è un territorio invalicabile, in cui i personaggi, un po’ per caso e un po’ per desiderio, ci si smarriscono per poi uscirne trasformati. Una favola semplice, alla fine, che però volevo raccontare con degli spazi veri. Quindi, tante difficoltà alla fine non le ho avute, perché comunque la periferia è un grande territorio di lavoro, non solo per chi cerca l’umanità in essa ma anche per chi vuole trovarci la sperimentazione di qualcosa di diverso. La periferia è sempre interessante, a maggior ragione se è di una grande città. Infatti, a Corvetto abbiamo trovato contesti incredibili, veri e propri mondi autonomi. Per esempio, ci siamo imbattuti in un bar, il bar Casablanca, in cui sembra proprio di stare all’interno della città marocchina. La vera difficoltà è conoscerne l’esistenza, perché è un luogo nascosto e frequentato da poche e abituali persone. Quindi, l’unico modo per imbattersi in esso è essere talmente curiosi da avere la voglia di perdersi tra le piccole stradine del quartiere e bussare alla soglia di questi luoghi chiedendo di essere ospitati.

Avendo girato sia in Italia che in Sri Lanka, qual è il legame che emerge tra due realtà geograficamente così distanti?

Naturalmente sono due mondi completamente diversi, però, allo stesso tempo, la città, la notte e i personaggi notturni sono molto simili. Io avevo ascoltato le canzoni di De André, il quale parla di Genova come la città della perdizione, con i suoi preti, prostitute e altri personaggi di quartiere. E allora io, sia a Milano che a Colombo, li ho frequentati tutti quanti senza giudicarli né etichettarli e questo mi ha fatto capire che, al di là della provenienza, questi personaggi sono universali. Poi, naturalmente, provo grande affetto per questi due mondi, l’Italia e lo Sri Lanka e, quindi, ho voluto provare a fare qualcosa di atipico per il cinema italiano. C’è questa tendenza in Italia, e la capisco, di raccontare sempre la migrazione da un punto di vista umanistico e, a volte, paternalista. Ma io, venendo da quel mondo lì, non posso descriverlo in questo modo, perché sono parte di quella cosa lì, quindi ho un mio punto di vista critico che mi porta a voler giocare con queste cose a modo mio. Allora, ho voluto sperimentare, anche un po’ ispirato dal cinema che gli immigrati di seconda generazione hanno fatto in Inghilterra, a Londra in particolare. Per esempio, mi vengono in mente film come Il Buddha delle periferie, My Beautifull Laundrette o ancora Sammy e Rosie vanno a letto. Tutti film di indiani o pakistani di terza generazione che, a Londra, legandosi particolarmente alle musiche di David Bowie, si mischiano con il movimento punk e fanno dei film incredibili, senza alcuna forma di paternalismo. E, visto che questo cinema in Italia non c’è, io ne sono disperatamente alla ricerca. Tornando alla scelta di girare in due luoghi così lontani, molto importante per me è stato seguire l’idea di fare una favola con una città utopica. Infatti, quando ho saputo che davanti a Colombo ne stanno costruendo una, Port City, mi sono detto che dovevo andare subito là. All’inizio i produttori storcevano il naso, dicendomi di cercare qualcosa di simile vicino a Milano, ma io mi immaginavo un mondo personale, dove avessi la mia mappa e controllassi le regole del gioco. Alla fine il potere del regista è proprio questo.

Quali registi ti hanno ispirato e che significato hanno le citazioni presenti nel film?

In realtà, alcune citazioni sono talmente interne che sarebbe difficile definirle. Infatti, è normale depositare ricordi o immagini di film che hai visto nella tua vita all’interno del proprio processo creativo. Poi, alla fine, ogni sguardo percepisce citazioni diverse in base alle esperienze cinematografiche che ha vissuto. Invece, in altri casi, alcune citazioni arrivano come frutto della ricerca che porti avanti. Lolita, per esempio, è arrivata in modo completamente casuale, senza volerlo, infatti non c’era nella sceneggiatura. A Colombo mi sono perso e mi sono imbattuto in questo cinema porno, non sapendo che esistessero ancora e, visto che stava per chiudere, mi sono detto che dovevo entrarci assolutamente. Allora, ho preso un biglietto, sono entrato e ho scoperto che, in realtà, là dentro le persone non si limitano a guardare i film, ma lo frequentano prevalentemente come luogo per incontri omosessuali al buio. Già questo era molto interessante per me, perché mi ricordava quando al cinema ci si andava non solo per guardare un film ma anche per incontrarsi, chiacchierare e ridere insieme. Quindi, guardando alcuni film, ho scoperto che proiettavano vecchi porno italiani di un regista che si chiamava Joe D’Amato. Lui aveva una passione per il cinema molto vicina a quella che sento io, cioè una specie di desiderio di voler dare un senso alla propria vita facendo cinema. Infatti, realizzava un film dopo l’altro, senza distinguere la professionalità dall’amatorialità. Proprio per questo, negli anni ’70, quando in Italia c’era un’importante industria pornografica, lui, pur di fare cinema, accetta di fare film porno. Però, c’era una cura dell’immagine atipica per il genere, che dimostrava che lui ci teneva al di là del dover far vedere “una scopata” e basta. Allora, lì vidi il suo Lolita e ne rimasi talmente colpito che richiamai subito la mia co-sceneggiatrice, dicendole che avremmo riscritto tutto adattandolo a questo evento. Ovviamente le ho fatto prendere un bel colpo ma alla fine l’ho convinta.

Quel cinema a Colombo è sempre stato così?

No. Un tempo era un cinema molto importante e frequentato. Aveva addirittura una piscina al suo interno negli anni ’70-’80, che adesso ovviamente è abbandonata e piena di rifiuti. Si può dire che la sua decadenza, che culminerà con la chiusura, rispecchia un po’ la crisi del cinema contemporaneo. Inoltre, fa ancora più effetto perché accade in un luogo in cui il cinema è una religione. Infatti, in Sri Lanka, ma in generale in molti paesi attorno all’India, andare al cinema è un po’ come andare in chiesa. Il fatto che un luogo un tempo “sacro” sia oggi in queste condizioni mi ha fatto molto riflettere. Rispetto a questo, mi era venuto in mente un film taiwanese che si chiama Goodbye, Dragon Inn. Il film parla di una sala-cinema che sta per trasmettere il suo ultimo film, prima di essere demolita. Gli unici ad assistere alla proiezione sono la bigliettaia e il guardiano, che vivono la loro storia d’amore in questa sala vuota. Ma, piano piano, i personaggi del film, sotto forma di fantasmi, tornano in vita e si siedono sulle poltrone della sala. Riguardando quel film, ormai del passato, in cui erano degli eroi, si emozionano e, insieme, piangono. Non è un discorso nostalgico, ma la sala creava vita, vita collettiva e, al tempo stesso, generava anche affetto e “peccato”. Infatti, girando nei corridoi di questo cinema, ho incontrato molte persone che facevano sesso nel buio. O anche mi sono imbattuto due ragazzi che si abbracciavano, ancora con i caschi addosso e, intanto, il film continuava ad andare, illuminandoli nell’oscurità della sala. Allora, mi sono detto: “Questo è cinema!”.

So che ci sono varie versioni di questo film, quindi, cosa ti ha spinto a scegliere proprio questa da rappresentare alla Festa del Cinema di Roma?

La questione è che avendo lavorato in modo così libero e, quindi, uscendo spesso dai binari tracciati dalla sceneggiatura, mi son trovato ad avere un surplus di materiale in fase di montaggio. La difficoltà, allora, è stata trovare un montatore che non si agitasse di fronte a tutto questo e che, invece, lo trovasse un percorso logico e naturale, come realmente è. Infatti, la mia non è un’idea folle ma è talmente vorace nel suo desiderio di fare cinema, che abbraccia tante cose. Quindi, per valorizzarla, devi farla maturare, ti ci devi staccare, devi riguardarla e capire cosa ti interessa e affascina e cosa, al contrario, non ti fa questo effetto. Devi un po’ toglierti l’ubriacatura che hai nei confronti del tuo progetto. Tutto questo processo ha attraversato un anno di montaggio, alla fine del quale siamo arrivati a una prima versione che, però, era esagerata, gigante e per questo si perdeva, mantenendo comunque l’energia giusta. L’idea era, quindi, di tenere questa energia ma di andare a sottrarre materiale al film per ritrovarne l’essenza. In questo percorso di sottrazione mi ha aiutato molto staccarmi per un po’ di tempo dal progetto. Infatti, per due mesi sono andato a girare un documentario che non c’entrava niente con Still Here, con l’obbiettivo di disinnamorarmi un po’ del film. E dopo questo allontanamento, sono tornato a riguardarlo e mi sono sentito molto più lucido. Il bello del cinema è, alla fine, proprio questo, il poter partire da un materiale così vasto e arrivare a tanti risultati, anche molto diversi tra loro.

Qual è la tua idea di cinema e qual è il ruolo che esso riveste?

Nel mio cinema la costante è una certa energia più che una certa estetica. La mia idea di cinema è quella di far trasparire nel film un desiderio impellente di esistere, che vada oltre l’imperfezione e il disordine di quest’ultimo. Io non penso che sia solo la drammaturgia ad emozionare. Credo, infatti, che possano farlo anche gli spazi, la musica, il disordine. Io cerco di seguire questa cosa, vivendo l’avventura in cui vieni trascinato dal film che stai facendo. Poi alcune cose vengono da sé. Per esempio, l’utilizzo di attori dello Sri Lanka e, di conseguenza, la questione della lingua è una cosa che quasi non ho scelto. Infatti, la difficoltà di adattamento alla lingua, il senso di straniamento che provi quando passi da un mondo ad un altro sono cose quasi quotidiane per me. Poterle rivivere attraverso il cinema è un discorso che sento mio. È proprio questa l’energia che cerco, quella voglia di perdermi, di vivere l’avventura e di sporcarmi le mani. È un desiderio che va oltre la semplice rappresentazione della realtà così come appare. Ivelise Perniola, una grande studiosa del documentario, dice che la realtà è quella che il regista vuole guardare e rappresentare e io cerco di fare questo. In questo modo posso far emergere anche il fantasmatico, l’irreale e il favolistico che si nasconde dietro il reale.

Come credi che il tuo cinema così contemplativo e poco dialogato possa arrivare ad un pubblico diverso da quello dei festival, non essendo una grande produzione?

Io, per esempio, sto lavorando alla distribuzione di questo film, cosa abbastanza strana, visto che di solito è il distributore a occuparsene. Il problema è che quando abbiamo contattato dei distributori, Still Here finiva alla fine della loro lista, come fosse la pecora nera. Quindi, avevo il timore che avrebbero potuto liquidare con poca cura la sua distribuzione, specialmente perché è un film che va accompagnato, raccontato e creato di volta in volta come evento di proiezione. Come fa sennò la gente ad interessarsi. Non ci sono grandi nomi, non ha vinto grandi premi. Allora mi sono detto che lo avremmo distribuito noi. Così ci siamo immaginati un tour di dieci città che parte da Milano e arriva fino a Palermo, in cui in ognuna di esse ci sarà un evento con la proiezione e un dibattito finale. Perché non basta solo il film, bisogna crearci attorno un evento, per esempio con video-istallazioni, magari utilizzando il materiale che abbiamo raccolto in questi anni. L’idea è di fare tutto questo in alleanza con sale cinematografiche e realtà che abbiano voglia di mettere in discussione l’offerta culturale e l’azione performativa legata alla visione del film. Per esempio, una volta avevo visto un evento in cui il film veniva proiettato sul soffitto e le persone, per guardarlo, dovevano stendersi. Ora non dico di arrivare a questo, però è evidente che andare al cinema sia un’esperienza che va rinnovata.

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