Era il luglio del 1975 quando Lo squalo e le due note di John Williams terrorizzavano una generazione di bagnanti. Sono tanti i temi discussi il 23 ottobre presso la biblioteca Flaminia, in occasione della presentazione del nuovo libro a cura di Andrea Minuz, Steven Spielberg. Fra tutti è proprio il ricordo di questa esperienza spettatoriale a sintetizzare il cuore del progetto. Progetto che vede coinvolti numerosi studiosi e docenti universitari e che nasce dal desiderio di rivalutare e ricollocare (all’interno di una limitata bibliografia italiana) la figura eclettica e ambivalente di un regista che mentre raccontava gli orrori dell’olocausto, ci ricorda Antonio Monda, curava in contemporanea il montaggio di Jurassic Park.
Proprio la capacità di Spielberg di creare un immaginario forte e universale ha da sempre generato pregiudizi in ambito accademico e una condanna da parte di quella critica che, formatasi con le nouvelles vagues europee, con difficoltà ha riconosciuto la sua autorialità all’interno dell’industria. Un tic intellettuale decisamente attuale, originato dal presupposto secondo cui l’arte e l’intrattenimento non possano convivere, e l’artista non può, per definizione, rivolgersi alle masse.
Eppure, tra quelle masse, alla fine degli anni settanta, c’era anche chi oggi rivendica con forza l’aggettivo “spielberghiano”. Esiste un cinema viscontiano, felliniano, ma esiste anche un cinema spielberghiano. E non si fa riferimento solo alla “Spielberg Face”, sintesi dello stupore dello spettatore in sala, quanto a un’arte condensata nella colonna sonora sinfonica e in un linguaggio basato su una sceneggiatura solida, complessa, ma che è anzitutto visiva. Proprio quelle immagini, nella metà degli anni settanta – afferma Andrea Minuz – ricordavano alle nuove generazioni la semplice bellezza del cinema classico. Un cinema che si rivolge a tutti, ma che può essere decodificato (come sottolineato da Pietro Masciullo nell’analisi di Minority Report), in grado di commuovere, di divertire, di fare paura. Un cinema che unisce la suspense hitchcockiana e l’universalità della Disney, divenendo emblema dell’identità occidentale. Sulla scia di nomi quali Howard Hawks, Billy Wilder, lo stesso Hitchcock, anche Steven Spielberg è riuscito a fare arte all’interno dell’industria.
Analizzare Spielberg in quanto autore, individuarne la sua cifra stilistica e la sua capacità professionale rende finalmente obsoleto lo scarto tra il cinema d’intrattenimento e il cinema “serio”, tra ciò che si studia e ciò che ci piace. Perché Spielberg, prima di essere un astuto businessman, è il regista che ci ha portato in luoghi magici, che ha lasciato immagini indelebili nella nostra memoria. E che ci ha fatto credere anche da grandi agli eventi spielberghiani della vita, dove niente accade per caso, i mostri vengono sconfitti, e una bici in volo può attraversare la luna.