DassCinemag incontra Stefano Fresi, artista dalle mille sfaccettature, che con ironia, gentilezza e professionalità ci racconta di come sia iniziato e sviluppato il suo percorso artistico. Partendo dalla musica, che da sempre lo affianca, l’artista inizia un viaggio che lo porterà al successo. Dal teatro, primo vero amore, al cinema iniziando prima con piccoli ruoli per poi riuscire a prendere parte a progetti importanti quali Smetto quando voglio e Il nome della rosa. Durante la sua fervida carriera il lavorare con artisti del calibro di Proietti, Torre, Benvenuti, Placido, solo per citarne alcuni, gli ha dato la possibilità di fare il salto di qualità e diventare una rarità di artista.
Sei un artista poliedrico: sei infatti compositore, musicista, cantante, attore e all’occorrenza anche ballerino. Da dove è iniziato il tuo percorso sul palcoscenico?
Beh, ballerino mi sembra un po’ eccessivo, però ho lavorato con Don Lurio e questo non tutti lo sanno. Comunque, il mio percorso è iniziato dalla musica. Avevo sei anni quando ho cominciato a studiare pianoforte classico per poi fare l’esame per entrare in conservatorio. Poi, intorno ai 16-17 ho conosciuto Augusto e Toni Fornari. Io e Toni cominciammo un sodalizio musicale mentre Augusto un giorno mi chiese di scrivere le musiche per un suo spettacolo, Le donne al parlamento, e da quel momento mi innamorai perdutamente del teatro. Parallelamente al percorso musicale ho quindi coltivato questa passione e ho cominciato a dire tre battute in croce, poi quattro e poi cinque, come pianista di scena dopo aver creato il gruppo i Favete Linguis (Stefano Fresi, Toni Fornari, Emanuela Fresi, ndr). Gli incontri poi hanno fatto tutto: lavorare insieme a pilastri e maestri del teatro quali Gigi Proietti e Attilio Corsini, mi ha migliorato enormemente.
Il primo vero e proprio approdo televisivo dopo quello in un Medico in famiglia è stato Romanzo criminale. Come è andato l’incontro con Michele Placido che ti ha scelto per il ruolo del Secco?
Tutto è successo nel 2003, quando abbiamo messo in scena I tre moschettieri che, essendo un testo molto ampio, abbiamo suddiviso in tre settimane al Teatro Globe. D’Artagnan era Riccardo Scamarcio e Michele Placido, che cercava il cast per Romanzo criminale, era venuto a vederlo a teatro. Alla fine Scamarcio fu chiamato per fare il Nero ma venni chiamato anche io per interpretare il Secco. Andai in Cattleya convinto di dover fare un provino e invece uscii con il copione in mano. Da lì piano piano mi hanno notato e ho cominciato a lavorare ad alcuni film tra cui Riprendimi e Viva l’Italia ma sempre con ruoli da comprimario.
La fama arriva con Smetto quando voglio. Come ti è stato proposto il personaggio di Alberto Petrelli e come è stato lavorare con un regista emergente?
Ad un certo punto mi chiamano per fare un provino, la mia agente mi dice che ha letto la parte, che sembrava molto divertente, un bel cast ma che il regista era molto giovane, quindi opera prima, ci stavano pochi soldi, piccola produzione ecc… Vado quindi a fare il provino, aspettandomi il solito tizio della produzione che con una telecamera ti da delle battute malissimo e che poi farà filtrare il provino al casting che poi forse lo farà vedere alla regia. Invece questa volta mi trovo Sydney Sibilia, lo staff e una spalla che era Guglielmo Favilla, che è un cavolo di attore bravissimo. Io ho fatto un provino meraviglioso, ho lavorato un’ora e mezza con il regista e sono uscito per la prima volta da un provino soddisfatto e con la consapevolezza di non aver perso tempo. Un modus operandi incredibile, nuovo e professionale. Nel frattempo mi avevano mandato la sceneggiatura ed io ero sempre più convinto di voler fare quella parte e che il film sarebbe stato il film dell’anno, ero contentissimo ma per mesi spariscono tutti, nessuno mi fa sapere nulla. Io ormai credevo di non aver preso la parte, e invece ‘sti disgraziati stavano aspettando Edoardo Leo che stava girando La mossa del pinguino. Sette mesi dopo mi fanno il call-back e mi ritrovo in sceneggiatura due delle battute che avevamo improvvisato al provino: in quel momento ho capito che ero stato preso. Ho fatto questo film con amore, con il cuore e non posso dimenticarmi le parole che Edoardo Leo mi disse al mio ultimo ciak: «Ste, hai fatto un grande film e adesso ti chiameranno tutti». Io non ci credevo, ma poi dopo essere stato candidato ai David Di Donatello per questo ruolo la mia agente mi chiamò, mi face andare in studio, entrai e trovai sul tavolo della scrivania dodici sceneggiature con il mio nome sopra.
Come hai gestito la scelta tra tutte queste proposte?
Qui è stata brava la mia agente perché i primi due film che mi avevano proposto erano due cine panettoni iper-pagati ma che non mi piacevano e soprattutto non mi interessava lavorare in quell’ambito. Io ho rifiutato quindi quei due film con i quali avrei estinto il mutuo della casa firmato due mesi prima, ero terrorizzato. La mia agente non ha battuto ciglio e mi ha detto che dovevo fare quello che mi sentivo di fare. Così ho potuto girare Noi e la Giulia, che è stato un successo clamoroso.
Quindi hai rifiutato due cinepanettoni e girato invece un anti-cinepanettone: Ogni maledetto Natale, di Torre, Vendruscolo e Ciarrapico. Hai qualche esperienza significativa con Mattia Torre che vuoi condividere?
Per farti capire il livello umano che caratterizzava Mattia ti racconto uno scambio di messaggi fra lui e Paolo Calabresi. Paolo mi ha raccontato, e poi ha raccontato alla cerimonia funebre anche se preferisco definirla come un saluto che gli abbiamo fatto all’Ambra Jovinelli, che un giorno riceve un messaggio da Mattia con scritto: «Paolo, dobbiamo brindare». Al che Paolo risponde: «Mi fa molto piacere, va bene, ma a che cosa?» e lui: «Questo poi lo decidiamo». Questa era la poesia di quell’uomo che ha saputo trasformare un dramma, quello che poi lo ha portato alla morte, in un libro e una serie strepitosa: La linea verticale. Mattia aveva la capacità di manipolare il reale e di trasformare la sua esperienza per quanto tragica e farla diventare un successo ironizzandoci sopra. Abbiamo perso una penna di quelle straordinarie. Pensiamo solo a Boris, scritto con quell’altri due matti di Vendruscolo e Ciarrapico.
Per quanto riguarda invece I delitti del BarLume sei entrato a far parte di un cast già avviato da tempo. Hai riscontrato qualche difficoltà o ti sei sentito subito a casa?
Questa era la mia paura perché è stato quello che avevo provato girando un Medico in famiglia dove ci stavano dei ruoli già ben definiti e dei recinti. Invece I delitti del BarLume è un’isola felice di una famiglia vera e propria che mi ha accolto e ha fatto si che potessero nascere amicizie profonde. Al BarLume ci tengo davvero tantissimo. È li che è nato il sodalizio con Alessandro Benvenuti che ha portato alla messa in scena dello spettacolo Don Chisci@tte. Con lui ci siamo trovati subito bene sul set e abbiamo cominciato a pensare di poter fare qualcosa a teatro. Ma sai quante volte si dicono queste cose e poi non si fanno? Quasi sempre. Invece ci siamo salutati ad Agosto e Novembre eravamo in scena.
Il primo lavoro internazionale è stato Il nome della rosa, la miniserie di Giacomo Battiato. Come hai approcciato al progetto?
Partiamo dal presupposto che io sono un malato sfegatato del romanzo di Eco. L’ho letto infatti in uno stato di grazia perché ero innamoratissimo di una ragazzetta che viveva a Genova, avevo circa 16 anni, era il mio primo viaggio d’amore, partivo da Roma per dormire da lei due, tre giorni. I treni non erano come ora, non esisteva l’alta velocità, ci volevano almeno otto ore per arrivare a Genova. Quindi io mi sono letto metà del romanzo all’andata e metà al ritorno, mi divorai quel libro e fu straordinario leggerlo. Anche mia sorella era appassionata quanto me e quando poi uscì il film andammo subito a vederlo, sto’ 007 ambientato nel medioevo con Sean Connery, eccezionale. Tutti però ci innamorammo di Salvatore il deforme, ruolo che tra l’altro era stato proposto a Franco Franchi che però rifiutò perché non se la sentiva, forse per l’inglese, non so… Ma per capire questo amore devi pensare a lessico familiare di Natalia Ginzburg, dove il padre diceva cose come: «non fate sbrodeghezzi, non fate potacci!», che non sono parole che esistono se non per loro. Ecco, quindi dopo aver visto il personaggio di Salvatore nel nostro lessico familiare entrarono parole come «penitenziagite», cioè le sue frasi. Mio papà a cena se non ti piaceva una cosa ti diceva: «non te piace? Sputa, sputa s’il vous plait». Invece io, quando mi proposero il progetto, ero sicuro di essere andato a fare un colloquio con il regista per poi eventualmente fare un provino e invece uscii con il copione delle prime quattro puntante in mano. Quando poi mi dissero i nomi del resto del cast tra cui John Turturro non ci credevo. È stato straordinario e siamo andati addirittura poi insieme a pubblicizzare il film da Fabio Fazio.
Hai qualche aneddoto da raccontare? Deve essere stato divertente e stimolante aver interpretato un personaggio come quello di Salvatore.
Ne ho due. Lavoravo con un grandissimo scenografo sul set, e lui mi aveva chiesto se mi potesse dare fastidio girare una scena con degli animali veri addosso, nello specifico delle blatte. Acconsentii anche perché erano blatte di allevamento, ma certo non mi aspettavo di trovarmene duecento che mi giravano attorno. Per cui mi viene in mente una cosa. Il mio personaggio lo avevo sviluppato come uno molto rozzo, quindi ho pensato che Salvatore potesse mangiare una blatta. Però col cacchio che io me magno una blatta ovviamente, quindi con lo scenografo creiamo una blatta finta con delle prugne secche. Sembrava vera. Allora io che facevo, inquadratura in primissimo piano di profilo, si vedeva la mia bocca perché la regia voleva che io parlassi con la blatta, la guardassi e poi la liberassi. Io ne feci una così, dopodiché ne feci una in cui mangiavo la blatta, ovvero la prugna. Nessuno sapeva che quella non fosse una blatta vera, tranne me e lo scenografo, così dopo averla mangiata ho sentito sul set un: «Oh no, stop! Ma… ti sei mangiato una blatta Stefano?» e io: «No, era una prugna». E chiaramente abbiamo tenuto questa scena. L’altro aneddoto si basa su una scena verso la fine del film, la torre è in fiamme, Remigio, che io ho tradito con l’inquisizione, si lancia nel fuoco per cercare di salvare il salvabile e il regista, Giacomo Battiato, mi dice che qui dovevo far piangere la gente. C’era la neve fuori, io cado in ginocchio, urlo: «REMIGIO!», dopodiché dò due pugni a terra e mi escono fiotti di lacrime. Sento lo stop, tutti che si complimentano perché era perfetta, li avevo fatti commuovere, stavano tutti a piangere… ma ero stato aiutato: il giorno prima avevano girato in quella piazza l’esplosione della torre e quindi erano saltati i vetri…. Io ho dato un cazzotto a terra e me s’è piantato un vetro nella mano, quindi quel “REMIGIO” è stato letteralmente un urlo di dolore.
Dalla musica, al teatro, al cinema, al doppiaggio… Dopo aver affermato con successo la tua bravura e professionalità, hai in mente di lavorare su un tuo progetto?
Devo dire che scrivere mi interessa tanto. Ho delle esperienze come autore, sia per i Favete, sia per lo spettacolo della mia compagna, Cristiana Polegri, Brava suoni come un uomo, sia tutti i monologhi che vado a fare in televisione che scrivo da solo. Ho un’idea su un film, poi un giorno la racconterò. Dirigere un film non so se sarebbe nelle mie corde, sono bravo a dirigere gli attori ma per il resto non ho ancora la conoscenza tecnica del mezzo e poi sono per le competenze.