Gli USA osservano, gradiscono e conquistano. C’è chi chiama questa pratica espansionismo, chi colonialismo e chi globalizzazione; per Blumhouse significa remake. La casa di produzione statunitense, specializzata nella realizzazione di film horror, dà vita a Speak No Evil (trailer), rifacimento dell’omonimo film danese uscito solo due anni prima. Il film americano, scritto e diretto da James Watkins, riprende in gran parte il lavoro del regista Christian Tafdrup, scostandosene però sia nella forma che nel contenuto.
La premessa è la stessa: una famiglia viene invitata a trascorrere una vacanza nella casa di un’altra conosciuta poco tempo prima in un resort in toscana. Cosi sembrerebbe la trama di un qualsiasi cinepanettone fatto di beceri intrighi amorosi e goffi addobbi natalizi. Ma a condire la narrazione di questo racconto è la presenza di Ant (Dan Hough), un bambino senza lingua e le continue contraddizione dei suoi presunti genitori Paddy e Ciara, interpretati da un James McAvoy che sembra uscito direttamente da Split e Aisling Franciosi. D’altro canto Mackenzie Davis e Scoot McNairy formano insieme ad Alix West Lefler la famiglia Dalton, di Londra, che sarà costretta a passare un infernale vacanza lontano da casa.
Lo svolgimento è diverso: alla maggiore durata del film statunitense corrisponde un più profondo sviluppo dei personaggi. Fatta eccezione del muto Ant, della piccola Dalton e del già lunatico Paddy, sua moglie e i coniugi Dalton acquisiscono uno spessore diverso. La mania del “più” che caratterizza gli USA. Più grande, più bello, più buono (non è la pubblicità di un Big Mac), sembra attecchire anche in questo film. Ciara è più sensuale e il suo rapporto con Paddy ne giova, al contrario mette in evidenza la distanza tra i Dalton, che sono più cupi e nascondo un trauma, il tradimento, che emerge come punto nevralgico della loro relazione e della storia. Infatti, la scelta di trascorrere del tempo con delle persone che non si conoscono, in un luogo che non si conosce, prorompe da una comune necessità terapeutica: cambiare aria.
La tendenza ad ingigantire è però funzionale a una sceneggiatura che rispetta i canoni Hollywoodiani, che classicizza e a tratti banalizza. Il finale ne è l’emblema assoluto: un happy handing, per quanto felice possa essere assicura la vittoria del bene sul male. Quasi superfluo dire che l’originale danese non lascia scampo alla felicità, in un epilogo che trasuda ansia, grottesco e splatter.
Emblematica è la scelta di realizzare il remake di un film uscito solo due anni prima. Il perché è probabilmente più banale di quanto si possa immaginale. I produttori hanno visto nel progetto un’occasione da non farsi sfuggire. La possibilità delle produzioni americane di allargare il bacino d’utenza è stata cruciale nella scelta per poter moltiplicare gli incassi del precedente film che al botteghino ha incassato $631,249. Per far ciò hanno internazionalizzato la produzione, hanno inserito un attore di classe A e hanno stravolto il finale declinandolo secondo una prospettiva tutta americana, quella puritana.
Ma quello che non hanno fatto è stato risolvere il problema più grande che attanaglia anche il primo film: l’assenza di una valida motivazione che faccia rimanere la famiglia Dalton in quella casa dell’orrore. Ad un certo punto del film se ne vanno, ma sono costretti a tornare per recuperare il peluche della figlia. Qui si confrontano con i padroni di casa in un assurdo dialogo che rovescia le parti tra offeso e offendente. Allora si palesa il tema latente del film: le convenzioni sociali. Forse maneggiarlo con astuzia avrebbe reso il film più interessante e certamente meno prevedibile, ma è questo che nella maggior parte dei casi ci si aspetta dall’intrusione a stelle e strisce.
Dal 11 settembre al cinema.