Shock. Entusiasmo e odio. Per chi ama film narrativi, con una sceneggiatura molto solida, vedere Song to Song, o qualsiasi altro film di Malick, sarà come parlare al telefono quando la linea è staccata. Non ci sono comunicabilità o punti d’incontro. Qui sono regia, fotografia e montaggio a fare il 90% del lavoro.
Una regia impeccabile, tendente al perfezionismo, supportata dal direttore della fotografia di fiducia di Malick: Lubezcki produce un’immagine in movimento fluida. Si avvicina talmente tanto agli attori da annullare quasi del tutto il confine tra l’inquadratura e la loro pelle, facendo risuonare le emozioni più crude, che abitano i personaggi dell’universo malickiano. Quella che si presenta sotto i nostri occhi è una danza con gli attori, che grazie al frequente utilizzo del fish-eyes (ottenuto con un grandangolare con un angolo di campo superiore ai 180°) trova un espediente capace di risucchiare lo spettatore dentro l’immagine.
Finite le riprese, ha inizio quello che nei film di Malick è il lavoro più arduo: il montaggio. Questo perché non c’è una sceneggiatura precisa da seguire. «Malick preferisce mostrare piuttosto che raccontare, gli piacciono gli sguardi e i comportamenti discreti. Quindi abbiamo cercato di includere tutto ciò che apparisse reale e naturale e che somigliasse a una performance. Malick cerca sempre di trovare quei momenti in cui sembra che i personaggi vengano scoperti quasi casualmente dalla mdp. Dovevano apparire in tutta la loro spontaneità, l’effetto voluto era che sembrasse di guardare qualcosa di privato» affermano i tre montatori: R. Ali, H. Corwin e K. Fraase. L’obiettivo era individuare le scene più vive che presentino l’high concept.
Qual è l’high concept? L’high concept è tutto incentrato all’interno dei personaggi. Differentemente da The Tree of Life, non sono degli archetipi precisi come la Madre, il Padre, il Figlio, ma rappresentano la visione generale che Malick ha dell’uomo. Persone sole, vuote, in cerca di se stesse, presentate dal set in cui abitano. Immense case vuote. Concerti affollati, dove i protagonisti, in cerca di un’emozione forte, si sentono ancora più vuoti e perduti. «Who am I?», «Who are you?», è la domanda che ricorre spesso in questo film. Non a caso il produttore Ken Kao afferma «sia un film sull’auto-scoperta». Qui giunge però il vero problema di Song to Song. Sebbene i personaggi inizino un viaggio interiore alla scoperta di se stessi – ma anche contro se stessi – questo viaggio sembra portare a un vicolo cieco. Anche in The Tree of Life i personaggi non riescono a trovare una risposta alla loro domanda: “Perché soffro?”, ma lo scarto tra i due film è che in The Tree of Life i personaggi riescono a superare lo stallo che la loro incessante domanda esistenziale gli pone. In Song to Song invece i personaggi rimangono statici e bloccati in un flusso di eventi che non portano ad alcun senso. Tutto ciò imprime negli spettatori una sensazione di disorientamento. Mentre gli altri film di Malick hanno per lo più uno scopo preciso, qui non c’è. Ci sono solo dei personaggi, che vagano nel nulla.
di Macha Martini