La voce Wikipedia di High Flying Bird (trailer) definisce il film come “sport drama”. Eppure, di basket giocato ce n’è davvero poco, a partire dalla trama: Ray Burke (André Holland), agente sportivo, si ritrova a dover risolvere la serrata della NBA, avvenuta perché i giocatori richiedevano che fosse loro destinata una fetta maggiore dei miliardari ricavi delle squadre, incontrando ovviamente l’opposizione dei proprietari. Nel mentre, Erick Scott (Melvin Gregg), “rookie”- ovvero da poco passato alla lega professionistica – cliente di Ray, ha delle difficoltà economiche visto lo stop del campionato. Piuttosto che lo sport sembra centrale il meccanismo del profitto che lo domina, il “gioco sul gioco” come un personaggio definisce la NBA. Ma la situazione è anche più complicata. Possiamo immaginare un altro livello ludico sopra a questi due, ovvero quello della rappresentazione filmica. Ma forse anche un quarto.
Il livello che incasina la filastrocca compare nel momento in cui si pensa che High Flying Bird è stato girato con un iPhone. Il tutto diventa (mi si permetta per un’ultima volta questa parola) un gioco dall’ampio valore sovversivo. Perché Soderbergh condivide col suo protagonista Ray una consapevolezza: la maggior parte del potere che permette a David Starr (Zachary Quinto), proprietario di una squadra in High Flying Bird, o all’Harvey Weinstein di turno di fare il buono e il cattivo tempo proviene dal possesso dei mezzi di produzione e di distribuzione. Ma questo monopolio è messo a rischio dalle sferzate del vento del cambiamento portato dalle tecnologie digitali e dalla rete. Così Ray è capace di organizzare un evento di beneficenza con il quale aggirare i diritti di immagine riguardo le prestazioni sportive dei giocatori e Soderbergh di girare un film con un dispositivo potenzialmente nella tasca di tutti (e con l’ovvio ausilio di ottiche speciali).
Ray, allora, butta giù un sassolino da un dirupo e i proprietari sono costretti ad intervenire per evitare che si trasformi in una valanga, concedendo a Ray ed alla Players’ Association quello che vogliono. Qui forse è la maggiore lucidità di High Flying Bird, nel mostrare come il “gioco sul gioco” non venga abbattuto dalle prime intemperie, ma si adatti in conseguenza ad esse e che, senza una volontà comune, le cose non cambieranno mai. Non basta un Ray Burke o uno Steven Soderbergh che lo metta temporaneamente in difficoltà. Serve che la passione, di giocare a basket o di girare un film, prenda coscienza di se stessa e si opponga ad un elitismo che la sterilizzerebbe. E che questa venga usata da “rookie” e giovani cineasti per stabilire nuovi metodi e canoni.
Il grande pregio di High Flying Bird, però, si ha soprattutto nel fatto che nel sostenere questo discorso non cade nel tranello dell’estremismo opposto di un cinema senza memoria. Non abbocca ad un facile e radicale determinismo tecnologico che indurrebbe a cestinare il linguaggio convenzionale del cinema passato. Ne esce un prodotto che equilibra magnificamente Nuovo e Vecchio, che non si ferma ad uno sperimentalismo per pochi, ma che offre una delle prime pietre di un lungo cammino che potrebbe portare ad una rivoluzione dell’industria. Da buon cinefilo, Soderbergh crea un’opera che, non usando mezzi cinematografici, per la seconda volta dopo Unsane, e non mettendo piede in sala (è infatti distribuito da Netflix), non ha alcun tipo di timore nel farsi chiamare Film.