#Venezia: Shahed (La testimone), la recensione del film di Nader Saeivar

Risale a non molto tempo fa il video pubblicato su tiktok delle cinque adolescenti che danzano a Ekbatan, un quartiere periferico di Teheran, senza indossare ľhijab, sulle note di Calm Down di Selena Gomez e Rema. Sono state subito identificate dal regime iraniano e costrette a scusarsi pubblicamente, dopo due giorni di prigionia. 

La prima scena di Shahed (La testimone) è in una sala da ballo, dove alcune donne stanno danzando per un pubblico ristretto. Dopo aver mostrato l’intero contesto in cui esse si muovono, a trecentosessanta gradi, l’obiettivo si ferma per avvicinarsi lentamente a Tarlan (Maryam Boubani) che osserva lo spettacolo seduta, sorridente. È un’insegnante di danza in pensione, una donna dallo sguardo magnetico e dai bellissimi e lunghi capelli bianchi. È apprezzata da molti membri della comunità, soprattutto femminili, meno da altri che la ritengono pericolosa per le sue idee politiche. Tarlan assiste all’omicidio dell’amica Rana da parte del marito, che più volte aveva picchiato la moglie per qualche video di ballo pubblicato sui social. Lei denuncia, ma la polizia non indaga perché all’uomo, lavorando con i governi stranieri e trattando per aggirare le sanzioni economiche per conto del regime iraniano, è garantita un’immunità.

In Shahed (La testimone) di Nader Saeivar, scritto – e si vede! – con Jafar Panahi (qui anche montatore), tutto viene portato all’interno di una dimensione concreta, cosicché si possa costruire un discorso volto alle presenti, reali lotte e vicende umane. La danza diventa quindi un gesto politico di ribellione al regime repressivo, che si manifesta in quello che forse è il finale surreale e più bello di questa Venezia 81: ci sono un forte vento che smuove gli alberi e l’elegante danza di una ragazza che insieme sfondano porte, cancelli che sono gabbie che nascondono cose, idee e persone.

Tarlan è «una testimone, e questa testimone non svende la propria dignità di fronte alla pressione politica e alla paura». Di lato c’è anche una riflessione sul senso delle immagini come veicolo di forza e resistenza, percepite come pericolose dal governo perché incontrollabili, veloci, come la danza. In fondo siamo tutti testimoni distanti che osservano passivamente lo scorrere degli eventi e delle ingiustizie. Durante i titoli di coda scorrono i video di donne che ballano – alcuni già visti come quello delle ragazze di Ekbatan, altri no – tra gente comune e attiviste, con sottofondo Rosaarito del musicista Mehdi Yarrahi, la canzone che l’ha fatto arrestare, definita dal regime immorale. Tutte ballano, alcune lo fanno ancora, altre sono state bloccate, uccise, ma i loro “io” filmati continueranno a ballare ininterrottamente rimanendo per sempre importantissimi simboli.

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