Si può analizzare attraverso l’evoluzione di genere in un rapporto, per capire perché duri o perché stia in crisi? Questa, forse, è la domanda iniziale del remake di Hagai Levi dell’omonima opera bergmaniana Scene da un matrimonio (qui il trailer). Non a caso, inizia proprio così il racconto del primo episodio di questa miniserie disponibile su Sky e presentata fuori concorso alla 78a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Una dottoranda di psicologia, tramite un’intervista alla coppia composta da Jonathan (Oscar Isaac) e Mira (Jessica Chastain), vuole indagare le cause che portano al successo di un matrimonio. Nel farlo, la giovane si sofferma sul ruolo della donna all’interno della relazione, cercando una correlazione tra la nuova funzione assunta dalla figura femminile nella contemporaneità e la riuscita della stessa vita di coppia. Già dalle prime battute della serie, il ruolo della donna risulta, quindi, fondamentale nell’analisi di un rapporto, ma lo diventa ancora di più se messa a confronto con l’evoluzione di genere avvenuta dall’opera di partenza fino a questa nuova riproposizione.
1. La donna uccellino di Bergman
Trasmessa in sei puntate nel 1973, Scene da un matrimonio è una serie scritta e diretta da Bergman, che l’anno successivo ne fece una riduzione cinematografica, mantenendo la struttura in sei capitoli che doveva segnare la trasformazione del rapporto tra Marianne e Johan, dal matrimonio, alla separazione, fino al divorzio.
Johan (Erland Josephson) e Marianne (interpretata dalla diva del cinema bergmaniano Liv Ullmann) sono sposati da dieci anni e hanno due bambine. Marianne lavora in uno studio legale, mentre Johan è un docente universitario. L’incipit adottato dal regista e sceneggiatore svedese per raccontare la loro storia non parte da una ricerca psicologica, ma da un’intervista all’interno di uno show televisivo. Le inquadrature iniziali non si soffermano sui primi piani (solitamente tipici dello stile bergmaniano), ma rimangono ancorate al punto di vista della videocamera televisiva, donando già una forte chiave di lettura.
Tale scelta, infatti, permette fin da subito di inquadrare come i due non siano in grado di vivere realmente la loro relazione, ma di come rimangano intrappolati in una finzione dove le rughe vengono nascoste sotto un abbondante strato di cerone (non a caso, il titolo del secondo episodio/capitolo è: L’arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto). Ciò trasporta il pubblico in un turbinio di angoscia (accresciuto dalla scena della cena) privo di catarsi, fino al terzo episodio/capitolo, quando Johan intraprende una relazione extraconiugale che porterà alla separazione tra lui e Marianne.
La vita di coppia diventa quindi uno show, che si nutre, tramite un occhio freddo e meccanico, dell’impassibilità che si cela dentro un matrimonio longevo. Un’impassibilità che tende al limite dell’alienazione nella rappresentazione della sua protagonista, priva di una qualsiasi volontà di cambiamento. Marianne, infatti, per tutti i sei episodi/capitoli rimarrà schiava di un marito allo sbaraglio, non mostrando mai di voler consciamente ammettere la tossicità del rapporto in cui ha vissuto lungo quel tempo e dal quale non vuole staccarsi.
Un riferimento esplicito di Bergman è a Casa di bambola di Ibsen. Se da un lato il regista esplicita questo suo richiamo scrivendo una scena in cui i due si recano a teatro a vedere questo spettacolo, l’aspetto principale risulta essere la correlazione tra la donna nel dramma ibseniano e quella nella serie/film bergmaniana: entrambe due donne uccellino, slegate da due consapevolezze diverse.
Lodoletta. Questo è il modo in cui Helmer si rivolge a Nora in Casa di bambola . Nora viene subito identificata dal marito – e agli occhi degli spettatori – come un uccellino fragile, rinchiuso in una piccola gabbia, con tutti gli accessori, ma pur sempre una gabbia. Gabbia in cui Bergman rinchiude la sua Marianne, già tramite i quattro lati dello show televisivo mostrato all’inizio dell’opera.
Fin dall’inizio Johan viene descritto con un forte carattere, intriso di maschilismo tossico, ma comunque indipendente dalla moglie. Marianna invece viene schiacciata dallo sguardo della macchina da presa e si comporta in maniera sottomessa e in linea con il ruolo che si crede debba avere una donna. Già semplicemente parlando della loro visione dell’amore, lui si mostra egoista (ammettendolo chiaramente e senza alcun senso di colpa), invece lei ricade nel solito stereotipo femminile romantico, che afferma però senza alcun tipo di sfumatura personale. Marianne appare priva di una voce propria esattamente come Nora all’inizio di Casa di bambola (perché anche parlare troppo alla fine segna un’evidente mancanza di comunicazione del proprio io e del proprio pensiero).
Nel corso della storia, mostrata per piccole scene di vita, il personaggio della Ullmann continua a non viversi indipendente dal marito, nonostante l’abbandono da parte di lui. Marianne intraprende nuove esperienze amorose, ma quando Johan si ripresenta da lei, anche se fisicamente sembra respingerlo, non riesce comunque a staccarsi da lui, continuando a sprofondare, priva di ogni possibilità di azione o reazione. Tale impossibilità diviene ancora più esplicita negli ultimi due episodi, dove, tramite la cruenta e fredda visione di Bergman, l’alienazione provocata nello spettatore (ma forse soprattutto nella spettatrice) dall’impassibilità di Marianne raggiunge il suo culmine.
Se Nora alla fine di Casa di bambola si rende conto di essere sempre e solo stata un uccellino o una bambola, rinchiusa dentro un’illusione che la soffoca e che non permette né a lei, né a suo marito di poter cambiare ed essere finalmente felici, Marianne questa consapevolezza non la raggiunge, almeno non consciamente. Ciò viene esplicitato soprattutto in termini di regia.
Nel penultimo episodio/capitolo, la protagonista sembra rendersi conto per la prima volta della propria condizione e di quanto si senta vuota all’interno del rapporto (sottolineato anche dalla sua insoddisfazione a livello sessuale, che esplicita al quasi ex marito). A tale consapevolezza segue la reazione violenta di Johan, che la rinchiude nel suo ufficio e la percuote cruentemente in due fasi.
Nella prima fase, Bergman decide di inquadrare solamente lui tramite un’inquadratura non precisa, che enfatizza la foga del momento. Finito lo sfogo, con un’inquadratura più larga vediamo Marianne asciugarsi il sangue dalla faccia e chiedere sottomessa la chiave. Già la scelta di non donare un primo piano di Liv Ullmann segna un’importante scelta stilistica nel messaggio che il regista vuole trasmettere. Così, infatti, nell’impossibilità di raggiungere la potenza dell’immedesimazione tipica del primo piano, si sottolinea il senso di estraniamento che prova la stessa protagonista, accresciuto nella seconda fase dell’azione.
Nonostante Marianne chieda a Johan di darle la chiave per poter andare in bagno a sciacquarsi il sangue dal viso, lui si riscaglia contro di lei, prendendola a calci sul ventre. Anche qui, la scelta di Bergman è di non soffermarsi su di lei, ma su di lui, inquadrandolo però dal basso, dalla stessa altezza di Marianne in una falsa soggettiva. Così facendo, mostra l’impossibilità della donna di poter essere altro rispetto a una vittima all’interno di un rapporto di coppia.
In linea con il messaggio appena emerso tramite lo stile registico, nell’ultimo episodio/capitolo Marianne, si rincontra con l’ex marito, con il quale, sebbene siano entrambi risposati, decide di passare una notte d’amore per festeggiare il loro anniversario, come se privata del ricordo della violenta lite o di quella consapevolezza che sembrava aver raggiunto. Durante la notte, lei si sveglia in preda a un incubo dove sogna di sprofondare e di non potersi salvare perché priva di braccia. Nel raccontare a Johan il frutto del proprio inconscio, confida di credere di non aver mai amato e di non essere mai stata amata e aver sempre e solo cercato qualcuno a cui aggrapparsi per sopravvivere.
Subito dopo questa confessione, però, Marianne, mostrata finalmente con dei piani ravvicinati, risulta essere sollevata dall’essere cinta dalle braccia di Johan, esprimendogli il desiderio di voler rimanere così, in quell’abbraccio, per tutta la sua vita (richiesta a cui lui, in una chiusura circolare con l’inizio di tutta la storia, risponde egoisticamente dicendo di avere una gamba addormentata e sentire freddo). Bergman mostra quindi come nel matrimonio la donna rimarrà sempre un piccolo uccellino (quella lodoletta ibseniana da cui Nora alla fine rifugge), che decide di rimanere chiusa in una gabbia che la soffoca per paura di volare.
2. L’importanza dello sguardo nell’evoluzione di genere
Fin dalla sua prima uscita in televisione, Scene da un matrimonio ha avuto un grandissimo impatto nel panorama audiovisivo. In primis, Woody Allen in Annie Hall si ispira largamente a Bergman, soprattutto nel finale, dove rielabora il sesto capitolo/episodio dell’opera bergmaniana, interrogandosi più apertamente sul perché decidiamo di rimanere mentalmente incastrati in relazioni evidentemente non adatte a noi (quesito che percorrerà quasi tutta la carriera dello scrittore e regista newyorkese, trovando una risposta più definitiva, anche se agli antipodi del suo ragionamento iniziale, solo in Un giorno di pioggia a New York). Tuttavia, in Annie Hall si focalizza maggiormente su un’analisi della vita di coppia, più che sullo sguardo attivo della donna all’interno di essa.
Un’interessante analisi, sempre correlata a Scene da un matrimonio, nei termini dell’evoluzione di genere si ha invece in epoca molto più recente con Marriage Story di Noah Baumbach. Al di là del nome, a un primo sguardo (e soprattutto dopo l’uscita della serie con Jessica Chastain e Oscar Isaac), il film potrebbe non sembrare aver alcuna correlazione con Scene da un matrimonio di Bergman. Tuttavia, risulta interessante il ragionamento sullo sguardo intrapreso da Baumbach nel 2019 e che Hagai Levi reinterpreta nel suo remake.
La storia è quella di Nicole (Scarlett Johansson) e Charlie (Adam Driver), un’attrice e un regista teatrale. Dopo un tradimento da parte di lui, lei si rende conto di aver perso, durante il matrimonio, la propria identità. Decide quindi di divorziare, ma anche di andarsene da New York, per tornare stabilmente a Los Angeles (la sua città natale), portando con sé il figlio avuto con Charlie, con il quale inizierà un’estenuante lotta per l’affidamento.
Se la parte centrale, nonché la parte più densa della storia, è raccontata dal punto di vista del personaggio interpretato da Adam Driver, è fondamentale notare sia la struttura che incornicia l’intera vicenda, sia una particolare scelta di regia. L’intero film inizia con le lettere che i due hanno scritto per la seduta di psicoterapia propedeutica alla loro separazione. In queste lettere Nicole e Charlie descrivono cosa amano l’uno dell’altra. Dopo un inizio immersivo, il racconto non si apre mostrando entrambi, ma su Nicole e sulla sua non volontà di leggere ad alta voce ciò che aveva scritto. Viene, dunque, da subito data maggior enfasi alla lettera scritta dal personaggio di Scarlett Johansson, che sarà fondamentale anche alla fine del film, per la risoluzione (assente nell’opera di Bergman) dell’intera vicenda.
Risulta, pertanto, evidente come lo sguardo femminile sia centrale in Marriage Story, essendo il suo punto di vista la chiave di lettura non soltanto dell’inizio, ma anche di tutta la storia. Charlie viene inquadrato dalla macchina da presa non come protagonista, ma come la persona conosciuta e vista da Nicole, nei suoi pregi e nei suoi difetti. A tale lettura partecipa anche un’analisi più stilistica.
È interessante notare che, durante il climax, quando i due litigano furiosamente, le valenze citazionistiche dei primi piani della Johansson e di Driver siano totalmente diversi. Quelli di Scarlett Johansson, infatti, richiamano apertamente i primi piani de La passione di Giovanna D’Arco di Dreyer (sono decentrati e angolati verso l’alto, distorcendo l’espressione dell’attrice). Ciò secondo il regista danese era fondamentale per entrare nei meandri del personaggio e del suo sguardo, visto che si dava maggior risonanza agli occhi, che sembrano poter dialogare senza alcun suono.
La donna in Marriage Story, quindi, non solo lotta per il suo ruolo all’interno della coppia, scegliendo di cercare una propria identità, ma diventa artefice dello sguardo e protagonista del punto di vista della macchina da presa, al quale non è più sottomessa come nel caso di Marianne. Nella nuova serie di Hagai Levi, che riprende quasi fedelmente la vicenda bergmaniana, ma cambiandola di segno (è Mira a tradire e lasciare Jonathan), il punto d’arrivo del film di Baumbach diventa lo starter dell’intero racconto.
La serie parte sottolineando l’importanza dell’”in medias res”, che permette anche una maggiore catarsi e analisi di ciò a cui si assiste. Ogni episodio, escluso l’ultimo, si apre mostrando uno dei due attori (in base a quale dei due sia il protagonista della puntata) sul set mentre parlano con vari membri della troupe, dotati rigorosamente delle mascherine chirurgiche, fino al ciak e all’azione. Si evidenzia quindi fin da subito quanto, con la finzione (che serve per aumentare la catarsi), si stiano affrontando temi attuali e che riguardano il presente. Da qui il cambio dallo show televisivo alla ricerca psicologica (diventate ultimamente sempre più mainstream nei social), ma anche alcuni temi come l’aborto, il poliamore e la ricerca di una carriera ambiziosa da parte di Mira, che la porta a staccarsi totalmente dal ruolo stereotipato di madre.
Analizzando la regia della prima scena, possiamo subito notare che se le battute di dialogo sono per lo più assegnate al personaggio di Oscar Isaac, a livello sonoro prestiamo poca attenzione a ciò che dice, in quanto la macchina da presa si focalizza in modo pressante su Jessica Chastain, sia con piani ravvicinati, che con giochi di luci e ombre e di messa a fuoco, evidenziando la sua insofferenza all’interno della relazione, di cui il marito sta elogiando la stabilità. Questa scelta stilistica viene mantenuta nelle puntate successive, anche in quelle dedicate a Jonathan. Levi decide quindi di dar maggior risonanza allo sguardo femminile, come nell’opera di Baumbach.
Osserviamo quindi anche un forte distacco dall’opera di Bergman. Da passiva, la figura femminile diventa attiva, attirando l’attenzione della macchina da presa anche quando non è la protagonista della scena. Tale ruolo viene anche enfatizzato dal percorso che Mira compie e dalla sua caratterizzazione. Se Marianna non riusciva ad avere la forza di scappare dalla soffocante realtà del suo matrimonio, Mira lo fa di scatto, esattamente la protagonista ibseniana che arriva improvvisamente alla consapevolezza. Se Marianna rimane immobile, Mira agisce.
Il racconto di Levi, così, sembrerebbe partire più che dall’omonimo Scene da un matrimonio, dalla fine di Casa di bambole per esplorare cosa sarebbe successo dopo quel finale così brusco e crudo. Nel farlo, mette in scena una donna simile a Nora, ma anche simile a Marianna nella rappresentazione degli stereotipi femminili di una determinata epoca. Qui lei non è romantica o devota al suo ruolo istituzionale, ma cinica, arrivista, narcisista (ma che usa tale termine contro tutto il genere maschile in linea con un ramo più tossico di un falso femminismo).
La donna quindi, sebbene assuma un ruolo attivo nelle dinamiche di sguardo, sembrerebbe ricadere schiava di un ulteriore stereotipo legato alla sua figura (situazione accaduta recentemente con Malcom & Marie, con il quale condivide anche lo stesso valore ibseniano assunto dalla casa/abitazione stessa). Lo scacco però si ha nella quinta puntata che, diversamente dalle altre, parte immersa nel racconto senza l’utilizzo del metalinguaggio, riutilizzato alla fine dell’episodio. L’intento è quindi quello di accentuare una riflessione da parte del pubblico e non è casuale che a riportare il discorso sull’aspetto finzionale sia proprio Jessica Chastain citando esplicitamente il film di Bergman.
Nell’ultima puntata Mira viene mostrata totalmente diversa, a partire dall’aspetto fisico. È importante sottolineare come la centralità di Mira rispetto a Jonathan sia segnata proprio dall’evidente cambiamento esteriore del suo personaggio: dal modo di portare i capelli, alle unghie e al trucco fino allo stile di vestiario. All’interno della serie effettua tre cambi, che coincidono con i tre plot point della sceneggiatura (set up, conflitto, risoluzione). Ciò accentua strutturalmente il ruolo attivo e dominante occupato dalla figura femminile, segnando una marcata evoluzione di genere rispetto all’opera originale.
Così, nel quinto episodio, assistiamo a una maturazione del personaggio interpretato da Jessica Chastain, che, se precedentemente mostrava la sua insofferenza a rimanere da sola, ora inizia ad acquisire maggiore sicurezza e consapevolezza di come si possa esistere senza la continua presenza di un altro. La donna diventa, quindi, artefice del proprio destino e dello sguardo della macchina cinematografica.
Insomma, “nel cuore della notte, in una casa buia, in qualche parte del mondo”, Mira non rimane fragile dentro la sua gabbia dorata, ma sostiene il proprio amante che ha paura di rimanere bloccato e aiuta lo spettatore ad andare verso la catarsi di un racconto che vede una concreta protagonista femminile, finalmente attiva e reale nei suoi pregi, ma soprattutto nei suoi difetti.
Mira rispetto a Jonathan sia segnata proprio dall’evidente?