#RomaFF19: The Dead Don’t Hurt, la recensione del film di Viggo Mortensen

The Dead Don't Durt, la recensione del buon film diretto e interpretato da Viggo Mortensen, presentato al RFF19 nella categoria Grand Public.

Dopo l’esordio alla regia con il dramma familiare Falling (2020), Viggo Mortensen dimostra nuovamente il suo valore e la sua grande maturità. The Dead Don’t Hurt (trailer), presentato in anteprima al Toronto International Film Festival e ora a quello di Roma, è solo all’apparenza un western classico ma, in realtà, nasconde alcune sorprese.

Se vi aspettavate un Viggo Mortensen sceriffo o giustiziere solitario vi sbagliate di grosso. Infatti, Holger Olsen, il personaggio da lui interpretato, è un semplice falegname, ex soldato, la cui storia è degna di esser raccontata. La piccola cittadina in cui vive, Elk Flats, viene tenuta sotto scacco dalla ricca famiglia Jeffries, composta da Alfred (Garret Dillahunt) e dal figlio Weston (Solly McLeod). La loro influenza è tale da corrompere facilmente anche il sindaco (Danny Huston), una figura che esprime sani principi che però occulta per accattivarsi i favori di quest’ultimi. Il resto dei cittadini, dunque, è costretto a subire ingiustamente le loro angherie, senza aver la possibilità di reagire.

L’equilibrio cittadino viene, però, scosso dall’arrivo di Vivienne (Vicky Krieps), una giovane donna franco-canadese che non si è mai piegata a nessuno. Neanche Olsen, con cui convive e che ama perdutamente, può dirgli cosa fare (fatto più unico che raro per una donna nel 1860). La sua vita tuttavia viene travolta da profondi mutamenti con la partenza del compagno per la guerra di secessione. Infatti, rimasta sola e senza l’austera compagnia di Holger, Vivienne diventa facile preda dell’atteggiamento spietatamente molesto di Weston. La sua lurida spregiudicatezza lo porta allo stupro, dal cui ignobile gesto verrà generato un bambino.
Il ritorno di Olsen lo costringe a scontrarsi con le responsabilità di un padre improvvisato acuendo, in questo modo, il valore sentimentale dell’intreccio.

L’interesse narrativo principale deriva dalla volontà del regista di non seguire un filo cronologico ma di dividere la narrazione in tre tempi, inizialmente incomprensibili, ma, con il fluire degli eventi, via via più chiari. Se a ciò aggiungiamo le atmosfere oniriche sul modello eastwoodiano e l’aver scelto una protagonista femminile, ci rendiamo conto che, a suo modo, The Dead Don’t Hurt è un western piuttosto anomalo.

È proprio la centralità e particolarità del personaggio di Vivienne che risiede questa piacevole anomalia. Una ragazzina speciale, nata con valori europei, che emula il modello eroico del padre e che sogna un futuro alla Giovanna d’Arco. Il cavaliere forestiero e solitario, che spesso sogna, è il simbolo della sua lotta per l’indipendenza. Una strada certamente tortuosa, probabilmente la più pericolosa ma, al tempo stesso, l’unica degna di essere percorsa. Vivienne, perciò, è una donna di altri tempi, contraria alle catene della vita matrimoniale e lanciata verso una totale libertà che sembra la sola soluzione plausibile. Niente e nessuno sembra poterla fermare, neanche i temibili Jeffries. Purtroppo, in modo altamente rappresentativo, è una forza superiore all’umana decisione a piegarla definitivamente: la malattia.

Allora, Olsen, da uomo senza troppe pretese e alcuna particolare aspirazione, muta profondamente. Un cambiamento frutto della conoscenza con Vivienne, che trova massima espressione nella sua dolorosa creazione, il figlio. Così, le verdi praterie, i campi fioriti e noi spettatori sentiremo la sua mancanza, con la consapevolezza che, però, il suo segno indelebile non potrà essere cancellato.

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