Trasporre su schermo le ragioni di uno degli attentati più efferati e noti della storia americana, secondo solo all’11 settembre, non è certo un obiettivo facile. Per di più, riuscirci in un tempo parecchio ristretto (meno di 90 minuti) diventa un’impresa davvero impossibile. Risiedono qui, infatti, i difetti principali dell’ultimo film di Mike Ott presentato al diciannovesimo Festival del Cinema di Roma, Mcveigh. Un’opera che tenta invano di esemplificare il processo di radicalizzazione antigovernativa, che ha causato il terribile attentato di Oklahoma City del 1995.
Timothy Mcveigh è un ragazzo solitario, dalle poche parole e dai modi all’apparenza pacati, capace però di scatti d’ira incontrollati. Sostanzialmente il classico ragazzo americano da cui ti aspetteresti come minimo un omicidio e da cui, quindi, vorresti sempre stare alla larga. Alfie Allen (Il Trono di Spade), l’attore che interpreta questo ruolo, è anatomicamente perfetto per la parte. Il suo sguardo perso e indifferente, il suo volto minuto e severo e il comportamento da emarginato ci restituiscono magistralmente questa sensazione di imminente pericolo. La sua acredine, tra le più represse, arriva spesso sul punto di esplodere in un furore incontrollato, ma il regista, molto testardamente, evita di mostrarcela, ricorrendo a piccoli ed efficaci stratagemmi. È il caso della scena in cui Tim sta per sparare a un uomo con un fucile da cecchino. La vittima inconsapevole è un tizio di colore con cui aveva avuto un infelice battibecco in un locale. Il mirino si posa sulla testa dello sventurato e Tim ha il dito sul grilletto ma, prima che possa premerlo, sopraggiunge una macchina che gli copre la visuale e lo costringe ad abbandonare la causa.
La violenza, dunque, viene semplicemente suggerita con un gioco di azioni e interruzioni che, invece di aumentare la tensione, provoca solamente una certa sonnolenza. Questa monotonia sembra frutto di un sentimento legittimo ma maldestramente esibito dal regista: quello di mantenere una certa distanza critica dal personaggio principale e dai fatti avvenuti. Ciò spiegherebbe anche la scelta di interrompere il film pochi secondi prima dell’esplosione, ricordandocela unicamente con i filmati d’archivio e le sconcertanti interviste dei superstiti. Però, ciò che non si capisce è il movente. Quello che, infatti, sembrava molto chiaro nella ricostruzione dei fatti prodotta dall’intelliggence, qui non accenna ad emergere. È questa mancanza che sancisce la differenza tra un ottimo film come The Order, presentato quest’anno al Festival di Venezia, e Mcveigh.
Certamente non tutto è da buttare. Infatti, la fotografia fredda che ricorda il miglior Fincher e la recitazione assolutamente credibile di tutto il comparto attoriale, Brett Gelman e Anthony Carrigan sopra tutti, aiutano il film a rialzarsi ma non sono sufficienti ad elevarlo definitivamente.