#RomaFF19: Libre, la recensione del film di Mélanie Laurent

Libre, recensione del bellissimo film di Mélanie Laurent con Lucas Bravo, prensentato a RomaFF19 nella categoria Grand Public.

Mélanie Laurent eccelle alla diciannovesima edizione del Festa del Cinema di Roma con il suo Libre (trailer). Dopo aver dimostrato il proprio interesse per le avventure criminali nell’ultimo Le ladre, la regista e attrice francese sforna un incredibile biopic sulla vita del noto fuorilegge Bruno Sulak, divenuto fenomeno popolare negli anni ’80. Il film, però, non si limita ad essere un mero resoconto delle sue vicissitudini, infatti non rifugge affatto ad arrangiamenti personali. È in questo modo che la personalità dell’autrice emerge concedendo, al tempo stesso, agli attori lo spazio di conquistare la scena, lasciandoci sbalorditi.

Bruno Sulak (Lucas Bravo) è un rapinatore a dir poco atipico. Il suo codice d’onore, chiaramente ispirato al leggendario personaggio di Arsenio Lupin, è molto chiaro: rapinare per divertimento, fregarsene del guadagno e, sopratutto, non uccidere nessuno. Ad accompagnarlo nei suoi folli e avvincenti tour sono la compagna Annie (Léa Luce Busato) e l’inseparabile amico di colore, interpretato da Steve Tientcheu. La loro storia in breve tempo diventa popolare; non c’è supermercato che non abbiano svaligiato, non c’è gioielleria che non li tema. Il loro nome è sulla bocca di tutti e ogni poliziotto sognerebbe di arrestarli, ma ce n’è uno che, più di ogni altro, ne sembra convinto: Georges Moréas (Yvan Attal).

È il suo avvento a cambiare l’ordine della trama. Se nei primi minuti del film è la coppia Bruno-Annie a prendersi la scena con il loro legame, la loro spregiudicatezza e impareggiabile passione, l’ossessione famelica del commissario tramuta la storia in un tragicomico ménage à trois. L’anelito smanioso che quest’ultimo prova nei riguardi di Bruno viene ben presto ricambiato. Strane chiamate, improbabili incontri e sardonici scherni si alternano a molteplici rapine, vari arresti e altrettante fughe. Così, il destino di Georges diventa indissolubilmente legato a quello del povero ispettore Zenigata nel famigerato Lupin III. L’insofferenza del fuorilegge rispetto alle sbarre della prigione, obbliga l’ispettore ad un inseguimento sempiterno che, irrimediabilmente, genera tra loro una forte simpatia.

Una storia che, quindi, potrebbe esser da molti definita “già vista”, eppure non è così. Mélanie Laurent sa sicuramente molto bene a chi far riferimento, ma il cuore del film non è solo frutto dei modelli passati. Il riverbero godardiano emerge in modo preponderante: i dialoghi eclettici e poetici ricordano quelli di Due o tre cose che so di lei, la sensualità dei due protagonisti sembra degna erede di quella vista in Le petit soldat, la loro leggerezza quella di Band à part.Ma, contemporaneamente, sono molti i tratti che rifuggono da un chiaro paragone con l’esperienza avanguardista francese. Infatti, la velocità di alcuni momenti della narrazione e gli scambi di battute ironici durante le rapine rimandano piuttosto all’esperienza americana dell’attrice, con un accenno particolare alla brillantezza dialogica di Tarantino (con cui, tra l’altro, ha fatto l’amatissimo Bastardi senza gloria). Inoltre, l’accentuata sessualità e la propensione al nudo rispecchiano sicuramente l’anima dell’ultimo cinema francese.

È, quindi, la somma di questi particolari a creare la magia e a definire la personalità dell’autrice. Melanie Laurent, oltre a confermare le sue capacità registiche, si dimostra anche una notevole e coraggiosa talent scout, in grado di lanciare senza freni il talento incommensurabile di Léa Luce Busato. Il risultato, dunque, non può che essere eccellente, agevolato da un comparto tecnico impeccabile e mai banale. Ciò che rimane è, perciò, tutt’altro che una storiella qualunque ma il racconto di un’avventura memorabile, dove leggerezza e forza drammatica ci accompagnano fino all’esplosione emotiva del finale.

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