Anche se in apparenza potrebbe sembrare strano associarlo a film come Air, Barbie e Lego Movie, nel suo intimo Widow Clicquot appartiene sempre alla più folta schiera dei film “brandizzati” che stanno apparendo nel mercato cinematografico. Oltre a rappresentare una figura femminile ingiustamente dimenticata dalla Storia, l’altra funzione del film di Thomas Napper – non meno importante – è infatti quella di radicare l’origine di un brand di successo (l’omonimo Veuve Clicquot) in una vicenda di emancipazione femminile e di visione imprenditoriale e scientifica in anticipo sui tempi.
Presentato nella sezione Grand Public alla Festa del Cinema di Roma, il film è basato sulla storia vera di Madame Barbe Nicole Ponsardin (la “vedova Clicquot” del titolo), successa al marito nella gestione dell’azienda vinicola di famiglia e promotrice di tecniche che portarono alla nascita dello champagne come lo conosciamo oggi. Come si può intuire dal perfetto accento posh britannico diffuso fra tutto il cast, ci troviamo nella Francia di inizio ‘800, periodo in cui – come il film si premura di ricordare più volte – una donna in posizioni manageriali era un’ipotesi da considerare quantomeno con qualche sopracciglio alzato; Barbe Nicole dovrà infatti affrontare lo scetticismo e l’opposizione di chi pensa che la gestione di un’impresa commerciale sia prerogativa unicamente maschile, e cercherà di farsi strada nel competitivo mercato enologico aggirando l’embargo napoleonico sulle esportazioni.
Napper prova a limitare la polverosità tipica dei period drama innestando nella narrazione una struttura temporale alla Malick, completa di voice over malinconici e di flashback impressionistici, e le immagini raggiungono occasionalmente una qualità pittorica che fornisce a questo ritratto sbiadito qualche ombra di personalità. Purtroppo questo livello minimo di cura formale non basta, e la discesa nella convenzione è improvvisa e senza possibilità di recupero. Ci sarebbero molte nozioni interessanti da ricavare a partire dalle diverse sfide che Madame Clicquot ha dovuto affrontare nella costruzione del suo progetto, ma il film non sembra essere interessato alle sue ricerche scientifiche né alle sue mosse imprenditoriali, se non come generici segnali di empowerment femminile.
Timorosi di rappresentare la vedova in maniera anche solo lievemente irrispettosa, Napper e i due sceneggiatori (Erin Dignam e Christopher Monger) eliminano programmaticamente ogni traccia di personalità dal personaggio principale (interpretato competentemente da Haley Bennett), rappresentandolo come poco di più di un portavoce per istanze ideologiche sacrosante, ma forti di più di 200 anni di senno di poi. In nessun momento la vedova viene veramente messa alla prova o in discussione se non da cause esterne, e per quanto ciò possa essere storicamente realistico il risultato finale è drammaturgicamente inerte e mai veramente curioso dell’interiorità e della complessità della donna. Widow Clicquot spunta tutte le caselle di quei drammi in costume pensati per generare assenso da parte di un pubblico già convertito alla causa – compresa la ormai obbligatoria “scena del corsetto”, nella quale l’indumento viene stretto sul busto della nostra eroina come pregnante simbolo di oppressione maschile sul corpo della donna –addolcendo però la medicina con una punta di romance che poco aggiunge alla già esile trama e, ipocritamente, offrendo occasionalmente un occhio di riguardo al male gaze. Un vino stantio ed annacquato, che non lascia dietro di sé nessun retrogusto.