Alla diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma arriva in concorso Progressive Joachim Lafosse con il suo Un silence (trailer), dramma processuale con protagonisti Daniel Auteuil e Emmanuelle Devos.
Il film racconta la storia di un noto avvocato di successo con più di qualche scheletro nell’armadio: storie di abusi familiari, tenuti nascoste per più di venti anni, iniziano ad emergere quando i figli decidono di rompere il silenzio e far venire a galla la verità. Nonostante siano passati molti anni dagli ultimi abusi, secondo la prudente e forse fin troppo indulgente moglie Astrid, il molestatore non sembra cambiato, e “consulta” quotidianamente materiale pedopornografico nel buio della notte. La sofferenza e il disadattamento del figlio adottivo della famiglia, al centro del film, nascono proprio dal silenzio e dall’assenza di comunicazione che circonda le violenze commesse dal padre; cresciuto in tale contesto, diventerà egli stesso parte del problema, avvicinandosi ai video scabrosi e contribuendo a tacere riguardo anche a ciò che subisce personalmente (e che la macchina da presa non ci mostra mai).
C’era una discreta attesa nei confronti del nuovo film intimista del regista belga, in particolar modo comprendere come avrebbe trattato un argomento così delicato come quello della pornografia infantile. Il risultato dopo la visione? Un film che lascia forse troppi pochi dubbi, troppe poche domande, e non insinua particolari spunti critici per mettere in discussione la realtà e il sistema che prende di mira. La verità, è che Un silence si adagia sulla (sacrosanta) sensibilità del suo tema principale per reggersi in piedi, senza però approfondire quei silenzi riportati nel titolo, che, più che caricarsi di significato, restano vaghi momenti di stasi in un film che gira a vuoto. La storia procede con passo stanco e confuso e, in alcuni momenti, si macchia di un didascalismo non del tutto perdonabile, proprio in virtù della pretesa serietà della materia trattata (come in un finale banale e affrettato che chiude circolarmente l’incipit). Gli attori offrono sicuramente una prova del loro livello, nonostante alcuni passaggi interpretativi appaiano poco chiari: ad esempio, Astrid solleva più di qualche domanda su alcuni suoi comportamenti ambigui verso il figlio adottivo Raphael, senza che poi questi abbiano un reale seguito nel proseguire del racconto (ma è colpa della regia? Della Devos? Di una sceneggiatura forse un po’ confusa? Probabilmente è tutto l’impianto che scricchiola).
La qualità tecnica non manca, certo, ma non basta ad impreziosire un testo irresoluto e privo di mordente, che fallisce nel tentativo di essere un film “scomodo” e polemico contro il mondo borghese e la sua complicità nella creazione dei traumi sociali.