Presentato nella sezione Freestyle della Festa del cinema di Roma, Segnali di vita è un film piuttosto difficile da inquadrare. Ambientata in un remoto villaggio della Valle D’Aosta, la storia narra l’incontro fra una piccola comunità e Paolo (Paolo Calcidese), astrofisico di Milano, che lascia il caotico ambiente metropolitano per trovare rifugio e solitudine nell’Osservatorio Astronomico del paese. Oltre al bisogno di trovare la serenità offerta dalla montagna, il protagonista dovrà occuparsi, per alcuni mesi, di effettuare delle osservazioni con il telescopio dell’Osservatorio. Un suo compito secondario, invece, sarà quello di condurre un sondaggio su come la comunità locale percepisce la scienza, quale rapporto abbia con essa e con quelle miscredenze popolari tramandate nel tempo.
Un guasto del telescopio, tuttavia, costringe Paolo a dedicarsi controvoglia all’ultima attività rimasta: spostare il proprio sguardo dall’alto al basso, verso gli abitanti della frazione. Amareggiato dall’imprevisto e vedendosi costretto a confrontarsi con una realtà così distante, Paolo si mostra inizialmente presuntuoso e scontroso. Tuttavia, man mano che il protagonista incontra le persone del villaggio, alcune di queste svelano riflessioni e conoscenze interessanti, anche se non scientifiche. Conoscendo gli abitanti da più vicino, assistiamo di conseguenza alla loro quotidianità e alle loro peculiari tradizioni.
Si è detto che Segnali di vita è un film di difficile definizione. La prima riflessione che stimola questa tesi nasce dall’osservare come il film non si presenti come tale, come una storia di finzione, bensì come un vero e proprio docufilm. Eccezion fatta per qualche sequenza, infatti, la narrazione sembra una presa diretta della quotidianità della comunità. Durante la visione si ha come chiara l’impressione che tutti i personaggi non stiano affatto recitando e tale tesi sembra trovare conferma dal fatto che ciascun personaggio porta il proprio vero nome; persino Paolo Calcidese, in una ricerca a posteriori, si scopre essere un astrofisico nella vita reale. Una seconda riflessione nasce quasi come conseguenza della prima: se i protagonisti della storia si concedono ad una spontanea improvvisazione, dove vuole arrivare il film? Si pone un obiettivo a cui giungere nella narrazione o vuole cancellare le tracce del proprio passaggio, restituendo un punto di vista neutro? Entrambe le opzioni sono valide, anche perché nella storia compaiono spunti di riflessioni non solo interessanti, ma anche attuali, se non cruciali, sui quali è inevitabile aspettarsi una qualche risposta: il rapporto fra ruralità e industrializzazione, fra uomo e animale, fra uomo ed intelligenza artificiale, fra la Terra e il cielo e così via.
L’attenzione del film, dunque, sembra svilupparsi su un piano diverso dalle aspettative del pubblico, ma nonostante ciò restituisce una narrazione scorrevole, alimentata dalla curiosità che nasce nel conoscere dei personaggi così caratteristici, e a tratti anche comica, grazie all’incontro di due dimensioni così diverse fra di loro. Dirigendo un film che omaggia, con il titolo, l’omonima canzone di Franco Battiato, Leandro Picarella sceglie di raccontarci una storia intima e sincera, tanto sentita quanto lontana, che porta un micromondo non solo nell’infinità del cosmo, ma anche nelle sale di un mondo tanto diverso.