Lavorare con pellicole d’archivio non è facile. Non lo è nemmeno costruire una storia omogenea a partire da esse, con un messaggio chiaro e prorompente. Questo, però, non giustifica un film uscito scricchiolante, soprattutto quando, prima della proiezione, il regista lo presenta come il risultato di anni di lavoro. Questo è quello che è successo con Uomini in marcia, documentario diretto da Peter Marcias e presentato alla diciottesima Festa del Cinema di Roma.
Il film parte dagli archivi della Cineteca Sarda per raccontare i movimenti sindacali e le proteste operaie della regione tra il 1992 e il 1993. Un argomento, quindi, molto specifico e delineato che, però, viene tradito nei primissimi momenti del racconto. Infatti, più che seguire le marce dei lavoratori di quei due anni, Peter Marcias sembra voler delineare un percorso più lungo, che parte dagli anni ’20. A confermarlo non sono solo i video utilizzati ma le stesse interviste a un professore che, piuttosto che illustrare le problematiche degli anni ’90, espone un complicato tema quale il rapporto tra lavoro e lavoratori.
Il pubblico, così, si ritrova a doversi concentrare su un argomento inaspettato, distante dalla trama letta sul programma del festival. Si discute di lavoro e ambiente, di sicurezza nelle miniere, di mantenimento del salario in periodi di crisi e persino di costituzione e pari opportunità. Un calderone di temi che si scontrano e scorrono senza sosta davanti agli occhi del pubblico, al quale si richiede una soglia dell’attenzione altissima. Un vero peccato se si pensa non solo al potenziale narrativo e culturale degli eventi degli anni ’90, ma anche alla bravura registica. Sebbene, infatti, il racconto non sia lineare e coeso, si percepisce la bravura nel trattare filmati di un’altra epoca, fragili e frammentari. Peter Marcias riporta nel 2023 le lezioni trasmesse da artisti come Ejzenstejn, giocando sull’accostamento di immagini per creare significato ed emozione, come quando al salto dei bambini nella terra che rotolano spensierati, affianca una ruspa colma di carbone, pronta a rovesciarlo.
Eppure, durante la produzione, nomi importanti del grande schermo hanno dato il loro contributo a questo film. Registi come Laurent Cantet e Ken Loach, impegnati nello stesso campo documentaristico, hanno commentato il lavoro, approfondito la storia e anche rilasciato interviste. Si vede che qualche volta la bravura non basta senza un canovaccio solido da seguire. A consolare il pubblico durante la prima, però, è bastato lo sguardo di uno dei “marciatori” sardi, presente in sala in rappresentanza di tutti i lavoratori. Quegli occhi semplici, umili, commossi davanti alla sua stessa storia hanno raccontato in pochi istanti molto di più che l’ora e mezza di film.
Insomma, sarebbe bastato rivedere la sceneggiatura o, forse, fare delle scelte più calibrate e pensate per realizzare un capolavoro sui diritti del lavoratore. Invece, purtroppo, Uomini in marcia rimane sospeso, tra la bellezza e l’incompiutezza, in un passato senza voce nel presente.