Il film non è solo un’esperienza visiva e, ormai, poche opere riescono a ricordarlo allo spettatore, Quattro quinti (trailer) è una di queste. Alla Festa del Cinema, Stefano Urbanetti porta sul grande schermo un docufilm che narra il calcio per non vedenti attraverso le partite dei giocatori della Roma. Per raccontare al meglio un lungometraggio come questo, però, dobbiamo partire da fuori sala, dal red carpet.
Manca meno di mezz’ora alla proiezione ed ecco arrivare sul tappeto rosso la squadra protagonista: ASDD Roma 2000. Davanti a loro l’allenatore, Sauro Cimarelli e il regista. Lungo le ringhiere non solo familiari ma tantissimi tifosi e spettatori che, quasi in silenzio, osservavano i fotografi e la squadra, visibilmente emozionata. Finché, qualcuno non inizia ad applaudire e a gridare “bravi”. Da lì, la folla scroscia in complimenti e in battiti di mani. Perché? Semplice: per farsi percepire dai protagonisti della giornata, per fargli coraggio in quell’ambiente estraneo perché, se agli attori normodotati basta un semplice sguardo per avere tutto questo, a loro, all’ASDD Roma 2000, serve ascoltare le voci.
È proprio la voce, il suono, che ha caratterizzato l’intero docufilm di Stefano Urbanetti, non solo quello nello schermo ma anche quello in sala, del pubblico che rideva, applaudiva e commentava le interviste e le vicende della squadra di calcio non vedente romana. Un ambiente insolito ma che combaciava perfettamente con il messaggio e i valori del film. Questo, infatti, non è il classico documentario che racconta di uno sport per persone con disabilità, di quelli che suscitano pietà e commozione marcandone il coraggio, gli ostacoli superati e i traguardi raggiunti. Nient’affatto, Stefano Urbanetti decide di narrare la squadra al pari delle altre, seguendola nel suo percorso verso le finali stagionali. Con una regia sporca, quasi amatoriale e, per questo, estremamente vera e diretta, veniamo gettati a bordo campo, quasi come dei tifosi. Ci vengono spiegate le regole del calcetto a cinque per non vedenti e da lì, assistiamo alle varie partite, gioendo per le vittorie o commentando frustrati le vicende con il Lecce. Insomma, nulla di diverso da quello che faremmo guardando la Champions seduti sul divano di casa.
Tra una partita e l’altra, ovviamente, ci sono loro: i giocatori, il coach e il manager della squadra. Si raccontano e chiacchierano, uscendo anche fuori tema qualche volta. C’è chi racconta di come ha iniziato a giocare da piccolo, quando tra bambini non si percepiva la differenza tra vedenti e non, oppure chi sottolinea la soddisfazione di abbattere le barriere facendo goal a un portiere normodotato e altri ancora che si perdono a filosofeggiare sulla bellezza oggettiva, come Jacopo Lilli che paragona Angiolina Jolie a una carbonara. Dopo le finali, quando pensi che il film non abbia più niente da dire, arriva l’ultima storia: quella della scuola calcio per bambini non vedenti. Un obiettivo raggiunto quasi per caso, dal desiderio dei più piccoli di poter giocare. Un momento di commozione non tanto per la situazione ma per la gioia di vedere realizzato qualcosa di importante. In quelle scene, il pubblico diventa il manager, diventa il coach, diventa la madre del bambino in campo che, finalmente, sa di aver creato un luogo unico e prezioso.
Insomma, Quattro quinti è un docufilm che si percepisce sulla pelle, che fa saltellare le emozioni sul sedili del cinema grazie alle voci e non tanto per le immagini. Un’esperienza unica, cristallina e genuina, di quelle che provi da bambino quando ancora hai gli occhi pronti a cogliere la meraviglia in ogni cosa.