Di racconti di vite sregolate il cinema è ormai saturo, per provare ad incastrarsi in questo universo c’è bisogno di originalità. Oppure quantomeno di coerenza. Presentato nella sezione Grand Public della 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma, Gonzo Girl è il film d’esordio alla regia dell’attrice statunitense Patricia Arquette. La storia ruota attorno ad Alley Russo (Camila Morrone), aspirante scrittrice a cui viene concessa l’occasione della vita: poter fare da assistente ad uno degli scrittori più influenti e innovativi del panorama letterario. Il maestro designato è Walker Reade (Willem Dafoe), figura palesemente ispirata ad Hunter S. Thompson, inventore del genere Gonzo Journalism. Il rapporto tra i due è più complesso di quanto la ragazza sognasse, un tira e molla di ammirazione ed odio che si sviluppa all’insegna di alcol, cocaina, acidi e funghi allucinogeni. Solo provando a distruggere lo scudo della medio-borghesia agiata e tranquilla Alley potrà riuscire ad entrare nelle grazie e nella mente del genio.
Le premesse sono sicuramente entusiasmanti, soprattutto per chi è entrato in contatto con questo genere grazie a Terry Gilliam ed il suo sciroccato Paura e delirio a Las Vegas. Le aspettative che si creano sono chiare, lo spettatore vuole entrare in sala, essere sballottato dall’inizio alla fine, non capirci nulla ed uscire assolutamente euforico. Purtroppo però questo film ha troppo senso. La linearità del racconto non viene mai messa in dubbio ed il risultato è quello di un prevedibilissimo biopic. Ci sono alcune scene nel film che sembrano voler suggerire una via di fuga dalla banalità, un paio di trip che sembrano volerci portare in un nuovo mondo dove il racconto può finalmente perdersi; manca però il coraggio e il mordente per poter proseguire su questa deviazione, lasciandoci viaggiare su un autostrada in mezzo al nulla, permettendoci solo di sbirciare nelle infinite possibilità di scorciatoie avventurose. Ogni storia laterale si amalgama alla noia generale, ad uno standard che non si vuole abbattere. Una storia d’amore raffazzonata e i drammi interiori dubbiosi della giovane protagonista sono terribilmente inutili, hanno il solo ed evidente scopo di allungare il minutaggio di una storia la cui principale forza dovrebbe essere il delirio più totale.
Mettiamo il caso però che le intenzioni della novella regista fossero di denuncia nei confronti di un sistema fuori dall’ordinario e non il divertimento sfrenato. Anche in questo caso si parlerebbe di un fallimento. Il rapporto delineato attorno ai due personaggi principali è un’insegna problematica, un invito ad accettare la tossicità se questa porta a risultati artistici validi. Il continuo perdonare le nefandezze perpetrate da Walker Reade sono inaccettabili nel momento in cui la fabula viene del tutto normalizzata. Gli abusi non sono divertenti, spesso fuori luogo e gremiti di violenze; eppure Alley sembra accettarli senza ribellione, senza mai pentirsi della scelta di intraprendere la collaborazione col demonio.
Non tutto è però da buttare. Le interpretazioni sono eccellenti, memorabile il cameo di Sean Penn nei panni dello spacciatore di fiducia della banda. Il comparto visivo è ben curato, un piacere per gli occhi, soprattutto nelle rare eccezioni che sviano dalla monotonia, integrando filtri ed effetti animati che giocano con l’eccesso. Patricia Arquette sembra in qualche modo un occhio promettente in prospettiva, forse l’errore che ha commesso è stato a priori: la decisione di dirigere un immaginario che non le appartiene pienamente. Tutti sbagliano e senza errori non c’è crescita. La speranza è che possa cogliere ciò che di buono ha seminato, tagliando le erbacce che hanno invaso e coperto questo piccolo e colorato orticello.