Forse Wang Xiaoshuai ci aveva abituato troppo bene. I suoi ultimi tre lungometraggi di finzione erano potenti riflessioni sulla Cina del passato e del presente e sui suoi mutamenti. 11 Flowers, uno dei suoi film più personali, è un racconto autobiografico su un undicenne di nome Wang Han, durante il periodo della Rivoluzione culturale nel 1975, a cui viene rubata la camicia da un assassino che si è nascosto nella periferia del villaggio. Ne esce un ritratto della Cina dove morte, stupro e violenza sono all’ordine del giorno, dove l’autorità, confinata nel fuori-campo, influenza i comportamenti di tutti, portando a vivere nella paura. Red Amnesia è un viaggio nella memoria privata e collettiva che si interroga sul rimosso dell’intera nazione. Il regista riflette su una generazione dominata dal senso di colpa, incapace di fare i conti con la realtà, che ha cercato di cancellare e dimenticare il passato e che si ritrova costretta ad affrontare i propri fantasmi. In questo modo offre il ritratto di una Cina che non è ancora riuscita a superare i traumi della Rivoluzione culturale e a cui è impedita la possibilità del futuro. Infine So Long My Son è un melodramma che si snoda lungo trent’anni e in cui Wang raggiunge probabilmente il suo apice nella mesca in scena della Cina. Non solo perché fa vedere allo spettatore i cambiamenti politici, sociali e urbanistici ma anche e soprattutto perché riesce a farli sentire.
Con The Hotel, presentato alla 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma in concorso nella sezione Progressive Cinema, l’impressione era che il regista si sarebbe allontanato dai suoi temi prediletti per concentrarsi interamente sul presente e sul dramma della pandemia. Non è così. Girato in quattordici giorni e con pochi mezzi a disposizione in un hotel in Thailandia dove il regista era rimasto bloccato a causa del lockdown, The Hotel segue gli incontri e gli scontri di un gruppo di individui impossibilitati a tornare nella loro casa. C’è Sova (Ning Yuanyuan), quasi ventenne, portata a Chiang Mai dalla madre Liang Dan (Ying Qu) per svelarle un segreto. C’è il professor Yu (Ye Fu) insieme alla moglie Mei (Huang Xiaolei) e un rapporto che, a causa della pandemia, inizia a logorarsi sempre di più. C’è un famoso pittore, Tommy (Li Zonghan), e infine un non-vedente, Ding-Ge (Dai Jun) e il suo accompagnatore thailandese O Dong (Worrapon Srisai), che intrattengono un rapporto ambiguo che non riesce mai a trovare espressione.
Wang Xiaoshuai ci spinge a confrontarci con gli effetti della pandemia (e, in un certo senso, a riviverli). Il rapporto tra Yu e la moglie sembra andare sempre più verso la propria conclusione, con i coniugi che si rinfacciano qualsiasi cosa, anche perché la loro visione della Cina del presente e del suo Sistema è agli antipodi. Suwa è alla ricerca della propria identità, vorrebbe essere libera ma la condizione in cui si trova glielo impedisce. Ogni volta che entra sulla scena si percepisce una sensualità forte e sul punto di esplodere, che avrà grande influenza anche su O Dong (che cercherà di sedurre) e di conseguenza sul rapporto di quest’ultimo con Ding Ge. Ma in quello che sembra essere un film tutto al presente, ecco che iniziano ad emergere le tracce di un passato che continua ad ossessionare i personaggi. Un passato che questa volta, in un film tutto dialogato com’è The Hotel, è riportato in vita attraverso le parole e che non può che essere quello della Cina di Chiang Kai-shek, dei soldati dell’esercito del Kuomintang mandati in Thailandia e a cui fu impossibile tornare in patria dopo la fine della guerra. Ma anche un passato di poco più recente, fatto di tradimenti che hanno condizionato un’intera vita.
Tutto questo viene messo in scena dal regista adottando il bianco e nero (così come fece con The Days, suo lungometraggio d’esordio nel 1993), il formato 4:3 e attraverso una serie di scelte che vorrebbero rendere visivamente e far percepire allo spettatore gli effetti del Covid e del lockdown. Ci sono dunque inquadrature che sembrano ingabbiare i personaggi e che rinviano al loro senso di imprigionamento, così come una macchina da presa spesso fissa che li riprende in lunghi piani sequenza o si limita a movimenti minimi, spesso panoramiche in verticale verso l’alto o il basso, per ricentrare il quadro. Una struttura temporale che rifiuta l’ordine cronologico tradizionale per tradurre il senso di perdita delle coordinate temporali da parte dei protagonisti (e spesso tra i pochi suoni, rigorosamente naturali, usati nel film si sente distintamente il ticchettio di un orologio).
Ma se l’idea di The Hotel è interessante sulla carta, rischia di esserlo meno nella sua effettiva realizzazione. È vero che vi sono alcune scene e momenti particolarmente intensi: uno degli ultimi dialoghi tra Suva e la madre; la stessa sensualità della ragazza che sembra permeare l’intera immagine, alcuni momenti tra O Dong e Ding Ge che sprigionano una dolcezza sorprendente. Ma è anche vero che lo stile adottato dal regista rischia di sfiancare anche lo spettatore meglio disposto, e che queste scene rischiano di configurarsi soprattutto come lampi improvvisi di quello che il film avrebbe potuto essere e non è. E Il finale, piuttosto che introdurre nuovi possibili livelli di senso, appare solo gratuito.