Con La cura, in concorso nella sezione Progressive Cinema della 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma, Francesco Patierno ci immerge in una Napoli in pieno lockdown. Una città ridotta al deserto, fantasmatica, apparentemente sull’orlo dell’apocalisse (qualcuno dirà che una disgrazia è incombente, forse un terremoto) seguendo la vita di un gruppo di persone che cerca di sopravvivere alla diffusione del Covid-19 (il nome del virus non viene comunque mai pronunciato).
Abbiamo un medico (Francesco de Leva) che cerca di aiutare gli altri e di salvarne le vite mentre la moglie si trova a Milano per ricevere delle cure mediche; un attore (Francesco Mandelli) che a Napoli si sente escluso e fuori luogo; un prete (Peppe Lanzetta) che non rinuncia al sermone anche all’interno di una chiesa vuota e un commerciante (Alessandro Preziosi) dal passato travagliato alla ricerca della pace interiore. Patierno mette in scena un’umanità in crisi, alla prese con qualcosa che non è in grado di gestire e che mette in luce le debolezze di ciascuno, come l’attore che vorrebbe tornare a Milano dalla compagna ricercando la felicità anche perché ormai stanco di quelli che “morirebbero per un’idea”, quando lui “morirebbe per amore”. Un’umanità che deve fare i conti con se stessa, i propri desideri e obblighi morali (il medico che si chiede se non dovrebbe stare con la famiglia, date le condizioni della moglie, piuttosto che rimanere a Napoli ad aiutare i malati), che rischia di perdere la fede o non l’ha mai avuta.
Eppure c’è ancora chi ha la forza di combattere, perché a rassegnarsi sono solo “i pazzi, i ciechi e i vigliacchi”. Chi ritiene che la fede si muova nella direzione del “tutto o niente”, dell’umiliazione e della sofferenza che, per quanto inaccettabili, devono essere accettate fino in fondo in quanto unico modo per vivere liberamente la propria scelta di credere. Ma anche chi inizialmente chiuso nel proprio egoismo, alla ricerca di una felicità che sembra assumere i contorni di un isolamento dal mondo, capisce che essere parte della Storia è ciò che davvero conta e che per riuscirci bisogna unirsi agli altri. E questo nonostante un confronto con la morte che sembra essere a senso unico e che si cerca di scacciare attraverso l’immaginazione: o rivangando un passato a cui ritornare con la mente come fosse un paradiso perduto o immaginandone uno diverso. Va da sé che a entrambe queste opzioni si accompagnino un senso di afflizione e rammarico per quello che era o sarebbe potuto essere. Ecco, il cuore del film di Patierno sta proprio in questa necessità di stare insieme e di non arrendersi mai, per quanto le difficoltà possano sembrare insormontabili, anche perché dal dolore può nascere qualcosa di sorprendente e insospettato.
Il problema de La cura sta però nel modo in cui questo viene messo in scena. All’inizio sembra di essere di fronte a una riflessione sul rapporto tra cinema e realtà e sul modo in cui entrambe finiscano per confluire l’una nell’altra senza soluzione di continuità, tanto che è presente una troupe cinematografica e la distinzione tra la realtà del mondo dei personaggi e quella del film che si sta realizzando diventa sempre meno netta. Eppure questa strada viene ben presto abbandonata, ripresentandosi per frammenti improvvisi senza che vi sia una reale coerenza. Ma anche volendo sorvolare su questo punto, a sconcertare è soprattutto il tono retorico e moraleggiante che i personaggi hanno per tutto il film, facendolo scadere in un didascalismo che lascia piuttosto contraddetti. Ciò a maggior ragione se poi questi stessi personaggi non fanno altro che spiegarsi, chiarire quello che altri hanno detto in precedenza e raccontarsi continuamente attraverso dei dialoghi di rara insostenibilità. Questo rivela prima di tutto una scarsa fiducia da parte del regista nell’intelligenza dello spettatore, ed è forse la cosa più inaccettabile.