Presentato in concorso nella sezione Progressive Cinema della 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma, I morti rimangono con la bocca aperta (trailer) di Fabrizio Ferraro è un grande esempio di cinema non-narrativo interessato a fotografare la lunga traversata dei partigiani lungo l’Appennino. Il regista recupera l’importanza storica della Resistenza e la spoglia da ogni verbo spettacolare. I morti rimangono con la bocca aperta è un caleidoscopio d’estenuanti tempi morti, al punto che anche le scene di battaglia vanno a considerarsi piatte. Il film depotenzia anche le possibilità voyeuristiche del Cinema – ad esempio i partigiani osservano il nemico col cannocchiale, ma allo spettatore non è mai concesso di vedere – e confonde per gran parte del tempo i volti della Resistenza. Il risultato è un capitolo di guerra pari all’ultimo episodio di Paisà (1945) di Roberto Rossellini, in cui le diverse cellule sono un piccolo unico errante. La differenza sostanziale col capitolo rosselliniano è che nella parabola di Fabrizio Ferraro non si vedono mai né i fascisti né i nazisti.
La traversata del gruppo protagonista su alture e boschi è accompagnata da un silenzio atroce. Il commento musicale è minimo, anche se durante il film torna in mente il canto partigiano “E io ero Sandokan” che Armando Trovajoli compose appositamente per C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola: “Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù. Ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà… Eravam tutti pronti a morire, ma della morte noi mai parlavam…”. Il gruppo guidato dal personaggio interpretato da Emiliano Marrocchi cammina infatti verso l’ignoto per la liberazione dell’Italia. Il gruppo avverte inoltre la morte e il freddo, ma mai ne parla; poetica, in tal senso, è la scena in cui l’unica donna del film (Olimpia Bonato) riscalda le mani congelate del partigiano più giovane (Fabio Fusco). Sebbene l’opera di Fabrizio Ferraro non lasci mai allo spettatore la possibilità di empatizzare fino in fondo con la Resistenza – in favore della traversata, il film non indugia in una profonda analisi psicologica dei personaggi – l’ultima scena descritta è il secondo di quattro momenti chiave che schiuderanno la vera narrazione del film (e quindi la psicologia dei partigiani).
La non-narrazione de I morti rimangono con la bocca aperta cederà dunque il passo ad una trama di amore e moralità. Il personaggio interpretato da Emiliano Marrocchi crede che la donna interpretata da Olimpia Bonato sia la spia responsabile di un’imboscata; questo scatena i dubbi del partigiano Pietra (Domenico D’Addabbo) che, da un lato, vorrebbe rimanere fedele ai compagni e, dall’altro, vorrebbe aiutare la donna. La sceneggiatura del film di Fabrizio Ferraro si colora a questo punto di un conflitto narrativo che inevitabilmente tirerà l’opera fuori dalla sua stasi incontaminata. Cambia anche la regia: se la prima parte del film prediligeva superbi campi lunghi a camera fissa, nella seconda parte la macchina da presa osa finalmente avvicinarsi alla Resistenza e seguirla con long take mobili e ossessivi. Gli uomini parleranno di più e i monologhi in voice over di Pietra saranno sempre più mirati. Una volta reso evidente il suo apparato narrativo, I morti rimangono con la bocca aperta racconterà infine la nascita di una coscienza.