La crisi contemporanea vissuta dai millennials è come un gas che riempie e si adatta a molteplici film-contenitore e A Thousand Hours, presentato alla sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, non è da meno. Con la regia di Carl Moberg, il film parla di Anna (Josefine Tvermoes), una musicista di trent’anni che cerca di farsi spazio nel mondo della musica con la sua band, The Vault.
Anna, dopo aver visto il disfarsi della sua band a seguito di un tragico evento e dell’allontanamento del chitarrista Thomas (Niels Anders Manley), andrà a Berlino per cercare di coronare il suo sogno. Nella comune dove vivrà, incontrerà Robert (Kenneth M. Chrinstensen), un importante produttore musicale, che diventerà il suo ragazzo. Anna, come molti millennials non sa cosa sarà della sua vita e il film non ha la capacità di costruire un viaggio che possa giustificare il finale: pur volendo diventare una musicista professionista, per l’intero secondo atto non vedremo nessun tentativo concreto che possa avvicinarla al suo obiettivo.
La pellicola salta da una situazione all’altra senza seguire un vero e proprio filo logico, o meglio, senza una spinta emotiva ben giustificata. La musica, colonna portante del film, è una scusa per riempire momenti scarni di azione, dove noi, audience in sala, diveniamo spettatori di personaggi che sono in una posizione di stallo, di personaggi senza uno sviluppo che possa interessarci e farci sentire partecipi.
L’ora e quaranta su cui il film si estende nonostante sia piena di musica, personaggi, chiasso, è in realtà estremamente vuota. Il tema pur importante del trovare se stessi, del seguire i propri sogni ormai trito e ritrito, non trova nessun spunto per innovarsi, modificarsi, per giocare con lo spettatore che sa perfettamente come andrà a finire.
Inconcludente nella sua esecuzione, A Thousand Hours rispetta alla lettera tutti i manuali di sceneggiatura che ci dicono come strutturarne una, ma non osa andare oltre la superficie.