#ROMAFF15: Stardust, la recensione

Stardust

Atterra “finalmente” il non-alieno Stardust (teaser) qui alla quindicesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Biopic musicale scritto e diretto da Gabriel Range su David Bowie, è probabilmente uno tra i titoli più discussi della Selezione di quest’anno, visto il polverone mediatico sollevatosi sin dall’annuncio del progetto. Ciò che ha iniziato a suscitare molta attenzione verso il film è stata l’immediata risposta negativa della famiglia Bowie circa l’utilizzo dei brani originali dell’artista (sulla falsa riga dell’altra risposta, sempre negativa, di David stesso ai tempi di Velvet Goldmine di Todd Haynes), a cui ha fatto seguito una crociata volta al boicottaggio della visione da parte dei fan, offesi dal proseguimento del progetto. Nulla di così sconvolgente alla fine, se consideriamo progetti simili come Last Days di Gus van Sant e Jimi: All Is by My Side di John Ridley, che nonostante tutto hanno saputo restituire uno sguardo alternativo sugli artisti di riferimento (rispettivamente Kurt Cobain e Jimi Hendrix).

Stardust

Ma superate queste problematiche, su cosa si concentra Stardust? Il film non è altro che la messa in scena degli eventi che hanno portano alla genesi di Ziggy Stardust, il più noto tra i vari alter ego adottati da David Robert Jones nel corso della sua carriera. Ripercorrendo lo strambo 1971 dell’artista, Range ha cercato di re-immaginare i vari frammenti che hanno portato Jones alla trasformazione da Bowie a Ziggy, dal fallimentare tour negli USA al complicato rapporto con il fratello schizofrenico. In tutto ciò però, per quanto interessante sulla carta, non si assapora mai il vero seme della follia che fece conoscere a tutto il mondo Bowie e poi Ziggy, così come non sembra trasparire il vero talento del cantante, che già c’era, nelle poche esibizioni che vengono mostrate (includendo la prima nelle vesti di Ziggy).

Strutturando il film come un road movie diviso tra viaggi in auto e in aereo, Range viaggia costantemente con il freno a mano, dimostrandosi impotente dinanzi alla mancanza dei brani originali dell’artista, e lisciando un’occasione paradossalmente unica: reinventare il mito calcando la mano su un distacco dalla realtà. I pochi momenti “visionari” (le allucinazioni e i confusi ricordi che affliggono il protagonista e il tributo iniziale a 2001) presto finiscono nel dimenticatoio, come presto risulterà anche banale e prevedibile, e non perché si parla di fatti accaduti, lo schema che porterà David Bowie alla creazione dell’alter ego. Non aiutano neanche le performance del cast, su tutti quella di Johnny Flynn, qui nel ruolo di un Bowie ai limiti del macchiettistico.

Insomma, Stardust aveva e probabilmente doveva pensare ad altre strade, altri lidi presso cui approdare e trainare un filone come il biopic che, pur essendo di tendenza, appare sempre di più poco ispirato e legato a una serie di standard prevedibili.

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