Una mano fa scivolare con destrezza i blocchi di un cubo di Rubik. La frenetica ricerca della combinazione giusta di colori accompagna il passo svelto di un giovane uomo. Ad attenderlo, la più ardua delle rinunce, quella della propria libertà in favore di una verità che non può più essere celata. Lui è l’informatico Edward Snowden (Joseph Gordon Lewitt) ex dipendente della CIA e dell’NSA e fautore del Datagate, lo scandalo globale scoppiato nel 2013 sulla sorveglianza di massa da parte del governo americano e britannico.
Chi è realmente Snowden? Un eroe o un hacker traditore della patria? In molti se lo chiedono all’indomani dello scandalo, in pochi guardano realmente alla gravità delle sue rivelazioni. «I use to work for the government. Now I work for the Public» recita la sua bio su Twitter. A tre anni di distanza dall’evento reale, Oliver Stone porta nuovamente sotto i riflettori la sua storia, servendosene per articolare un discorso su quei principi di libertà e democrazia, che la nazione americana sbandiera con facilità ma tradisce ripetutamente. Stone cattura l’essenza della figura di Snowden, facendone aderire i contorni a una matrice a lui cara – da Platoon (1986) a JFK (1991) – quella del cittadino americano nel suo viaggio verso la consapevolezza di un sistema corrotto. Il cinema del regista più politicizzato di Hollywood si conferma un grido di protesta tra una folla a stella e strisce. Un racconto sulle aspettative deluse che non rifiuta la grande retorica d’oltreoceano ma ne scardina le convinzioni dall’interno. Stone come Snowden, prima che un ribelle è un fervente patriota, un conoscitore di ciò che significa essere un cittadino statunitense a tutti gli effetti.
Nonostante un fisico poco adatto allo sforzo, il protagonista, caparbio e determinato, occhiali da nerd sotto l’elmetto, si unisce alle forse speciali, animato dal desiderio di estirpare un debito che, come egli stesso ammette, lo perseguita dall’11 settembre. Ma ben presto questo tormento lascia il posto a un conflitto che lo tocca più da vicino e il giovane, che nel frattempo è diventato uno dei più abili informatici del governo, è posto davanti alla scelta del sacrificare se stesso e chi ama.
Il cyberspazio, come il Vietnam prima (Platoon, Nato il quattro luglio) e i grattacieli di Wall Street (Wall Street, 1987) poi, diventa un terreno di proiezione, un universo fertile in cui si è auto-imposta la volontà di potenza che la nazione guida dell’ordine mondiale può esercitare senza morale e che ora prende subdolamente la forma di sfilze di codici numerici. Come l’esperienza nella foresta vietnamita, che Stone ha vissuto in prima persona, quello che non si vede può far paura più di ciò che è manifesto. Mr.Stone torna vigorosamente alla ribalta, regalandoci una storia che mai come in questo momento storico parla al buonsenso di un paese fomentato da slogan posticci («Make America great again» di Trump) che gettano la democrazia in pasto a desideri degenerati. Ne viene fuori un racconto solido, abilmente strutturato su più linee narrative che in un’alternanza tra passato e presente, i ricordi personali e la confessione ufficiale ai giornalisti del The Guardian, si incastra fluidamente come le tessere di un cubo di Rubik.