L’edizione degli Academy Awards 2019, tra le varie polemiche, ha visto quella riguardante il farsi strada dello streaming tra le candidature, che ha fatto storcere il naso ai cineasti tradizionalisti e ha portato alla ribalta i profondi cambiamenti in corso nel modo di fare e di vedere cinema. È in questo clima che il già pluripremiato Alfonso Cuarón si è imposto aggiudicandosi tre statuette (Miglior Regia, Miglior film straniero, Miglior fotografia) con una pellicola prodotta e distribuita da Netflix, Roma (trailer), che già a partire da tali scelte produttive rappresenta una radicale inversione di tendenza nel cinema di questo livello. A quasi un anno dalla vittoria è in un documentario (Roma: la genesi del film, del connazionale Andres Clariond) uscito pochi giorni fa proprio sulla piattaforma streaming che il regista, intervistato, racconta il lungo processo di gestazione del film, le scelte di regia che lo hanno portato a sperimentare un linguaggio che, pur tra pareri contrastanti, è stato avvicinato più volte al neorealismo, e che si augura di continuare a sviluppare in futuro.
“Credo che l’infanzia ti segni la vita. Sin da piccolo ho avuto una relazione intima con il cinema. Ma anche il cinema è segnato da un senso di solitudine, quindi il cinema e la solitudine vanno mano nella mano. “
È così che, nelle battute d’apertura del documentario, Cuarón descrive la solitudine vissuta anni addietro, nel 1970, nella confortevole bolla borghese del quartiere Roma, a Città del Messico, lo stesso identico scenario dell’omonimo film. Una bolla che ricorda l’immagine del piccolo e introverso Pepe, nella sua tuta da astronauta, che avanza faticosamente in uno stagno mentre gli altri bambini gli sfrecciano accanto giocando.
Forse è da questo tipo di solitudine che scaturisce la pervasiva dimensione della memoria che innerva di vividi particolari tutto l’immaginario del film. Cuarón afferma di aver iniziato a lavorare senza sceneggiatura, partendo da centinaia di appunti scavati dai suoi ricordi d’infanzia: dettagli, aneddoti, sensazioni, “fotografie” mentali ricostruite fedelmente, con spirito di rievocazione storica. Non a caso Roma sembra spesso ricordare, più che una tradizionale narrazione, una raccolta di straordinari momenti fotografici: piccoli frammenti di quotidianità, attimi drammatici della vita familiare, fino a eventi fondanti della storia messicana come il massacro del Corpus Christi del 10 giugno 1971, data nerissima nella storia dei diritti civili e politici del paese.
Il punto di partenza vero e proprio per questo film non è quindi la narrazione, la toccante storia di Cleo (ricalcata su quella di Liboria, la domestica di casa Cuarón), ma la parte sensoriale: per il regista è il verismo delle immagini il fondamento della ricerca di autenticità in Roma. L’attenzione maniacale posta nel far aderire ai suoi ricordi ogni dettaglio scenografico, anche il più nascosto e intangibile (al punto di ricostruire da zero intere strade con insegne e vetrine originali) è parte di un più ampio processo liberatorio, necessario al regista per far scaturire i diversi significati brulicanti sotto la superficie delle trance de vie ricreate.
La necessità non è solo quella di far riemergere il passato come se lo ricorda il regista, ma lasciare che siano questi stupefacenti quadri a parlare insegnando qualcosa di nuovo, in un approccio alla regia in cui parte fondamentale del processo creativo è lo scavare nelle parti oscure, remote della propria vita e portarle alla luce, esplicitarle. Cuarón stesso racconta quanto anomalo e allo stesso tempo purificante sia stato girare, nello stesso identico scenario in cui accadde nella sua vita reale, la scena in cui il padre abbandona la casa. A una prima reazione di rifiuto, è seguita l’immedesimazione con la figura paterna e quindi l’esorcizzazione di una delle esperienze più traumatiche della sua vita. Il tutto grazie allo sguardo oggettivo di questa “fotografia” ricreata. In questa prospettiva, la linea tra creazione artistica e psicanalisi è molto sottile.
“Posso dire che Roma è il mio primo film, il primo che ho fatto che incarna davvero il tipo di cinema che aspiro a fare.”
Risalta forte la cesura con i canoni della narratività hollywoodiana, della produzione di significato tramite una ferrea strutturazione nella scrittura, che caratterizza anche il cinema precedente di Cuarón. Egli invece in Roma si concentra nel ricreare momenti, eventi talmente brulicanti di vita che la storia emerge, straripa da ciò che si consuma sullo schermo, dall’evento filmico di per sé. La scena in cui il bambino di Cleo nasce morto è straziante non per un intenso primo piano che ritragga la disperazione della ragazza, ma per il grado estremo di verità di questo long take con inquadratura fissa che domina tutta la sala parto.
Sono le stesse parole dell’autore a darci il senso profondo di questo lavoro: “Volevo mantenere la distanza, l’oggettività, e lasciare che i momenti si accumulassero per trasmettere le emozioni. Questo avrebbe portato all’empatia, come effetto collaterale. Non abbiamo seguito il punto di vista soggettivo di nessun personaggio. Nemmeno di Cleo. È solo un personaggio in questo ampio universo. In qualche modo, il punto di vista è dell’universo. I personaggi lo attraversano solamente. “