Fotografia alla Lav Diaz. Scenario alla Luis Bunuel anni cinquanta. Composizione dell’azione alla Theo Angelopoulos.
Questi gli ingredienti che di primo acchito saltano agli occhi dei cinefili alla visione dell’ultimo acclamato lungometraggio del messicano Alfonso Cuaron. Ricordiamo che il cineasta vincitore del Leone d’Oro di Venezia 2018 ha alle spalle un passato tutto hollywoodiano che lo vede firmare un capitolo della saga di Harry Potter e diversi film canonici, nello stile e nella narrazione, per quanto attraenti come I figli degli uomini (2006) e Gravity (2013).
E invece con Roma, Cuaron fa una vera e propria scommessa. Il film è forse un ritorno alle origini o un punto di svolta? O entrambe le cose, dal momento che il regista non si è mai cimentato con un’opera stilisticamente così azzardata, controcorrente e di suggestivo decorativismo naturalistico. Non c’è traccia della retorica e della stasi che in certi casi affligge le cinematografie latino-americane. Cuaron negli USA ha imparato bene il mestiere della settima arte secondo le consolidatissime regole dell’establishing shot (il cinema “all’americana”). Ora che ha imparato le regole, ecco che si diverte ad accantonarle, anche se mai del tutto.
Innanzitutto Roma è una parabola autobiografica. Una visione del mondo adolescenziale del regista stesso. Non siamo nella capitale italiana, bensì nell’omonimo quartiere di Città del Messico nel 1970. Una famiglia agiata composta da Theo, padre medico, Sofia, pragmatica madre, quattro figli, suocera e due cameriere: Cleo e Adela. Cleo frequenta un ragazzo che la lascia incinta e la abbandona in una sala cinematografica poco prima della fine della proiezione. La giovane domestica non si perde d’animo ma quando scopre di aspettare un bambino, precipita in una situazione di sconforto. Allo stesso tempo si complica la situazione anche della famiglia: il padre medico fugge abbandonando la moglie e i quattro ragazzini. Cleo è una ragazza mite, remissiva, quindi teme che diventare madre possa portarla all’allontanamento da quella famiglia. Affronta la gravidanza sullo sfondo di un Messico ancora poco progredito, indigeno e archeologico, rude e pieno di violenza, ma allo stesso tempo libero e non inquinato. Una delle tante altre facce dell’America. Qualunque sia il suo destino Cleo comunque si rende conto di poter contare su una cosa: l’amore e la venerazione che Sofia e i suoi figli hanno per lei.
Roma è una parabola umana carica di sentimento e di intimismo. Non cade nei rischi della ridondanza e la stupefacente semplicità della sua tastiera stilistica fa esplodere svariati livelli di pathos e di poesia. E anche un film molto citazionista, pieno di omaggi velati e appassionati: come Diaz nei momenti di maggiore sofferenza la mdp resta fissa, immobile, non esistono stacchi di montaggio – per contro in alcune inquadrature il dolly viene sfruttato significativamente, dandoci la possibilità di vivere in tempo reale alcuni momenti sensazionali; come Bunuel condivide invece certe atmosfere tetre e lerce del suo periodo messicano – come ne “I figli della violenza” (1951) o “El bruto” (1953); come Miklos Jancso, Theo Angelopoulos e Bela Tarr invece la molteplicità d’azione nei singoli piani-sequenza, con un coordinamento spazio-temporale inusuale. Non si tratta di teatro nella macchina da presa, ma forse di sguardo del cinema all’interno di una teatralizzazione avanguardistica della realtà. Cuaron designa con il filtro della mimesi la realtà di quel passato, una registrazione fenomenologica del reale molto ricca, piena di possibilità. E proprio per questo non destinata a restare registrazione. L’uso dello spagnolo messicano e di altre lingue indigene completa il ricco e sorprendente lavoro di colonna sonora ambientale e mai direzionale. Lo sguardo universale e tenero della protagonista Cleo (l’inaspettata Yalitza Aparicio) non corrisponde immediatamente a quello dello spettatore, ma questi ne incamera la vicinanza, la comprensione, una sorta di compassione mai compiaciuta.
Il film non ha bisogno di fastosi trionfi in migliaia di sale per paese. Lo ha dimostrato già il pubblico impaziente in fila nelle poche sale italiane (sempre sold out) dove è stato proiettato in questi giorni come evento speciale prima della distribuzione ufficiale su Netflix il 14 dicembre. L’elevata carica espressiva ed etica del film che circonda ancora dopo la visione permette di dimenticare l’ultima polemica sorta a Venezia75, dove si storceva il naso di fronte alla vittoria di un film non destinato prevalentemente alle sale cinematografiche. Ma le sale del mondo si stanno prendendo la loro rivincita proiettandolo con inaspettati pienoni. Visti i successi degli altri festival americani come Toronto e New York, agli Oscar l’ardua sentenza.
di Gianmarco Cilento