È il 1960, stai passeggiando per la tua città e ti viene voglia di andare al cinema: La dolce vita e L’avventura li hai visti pochi mesi fa, ora sei titubante di fronte alle locandine di Chi si ferma è perduto e di Rocco e i suoi fratelli (trailer). Totò è una sicurezza, ma decidi che può aspettare, entri in sala per il nuovo film di Luchino Visconti.
Non sbagli. Per carità, Chi si ferma è perduto è assolutamente un capolavoro da recuperare, ma il film a cui hai assistito è qualcosa di sbalorditivo. È da qualche anno che Visconti, sia a teatro sia al cinema, eleva a capolavoro ogni singolo spettacolo e, con Rocco e i suoi fratelli, dimostra una maturità tale, da riuscir a mescolare bene le due arti di cui è maestro. Il film infatti è il connubio dei due “generi” atavici di cinema e teatro: la boxe e la tragedia.
Il grande regista sceglie di validare il genere cinematografico della nobile arte a livello autoriale, come nessuno prima di lui aveva osato. La boxe definisce le proprie regole contemporaneamente alla nascita del cinema e, come ogni spettacolo crudo, si guadagna da subito un luogo d’eccezione all’interno della settima arte. Il primo documento filmato di un incontro di boxe risale a appena due anni dopo la proiezione dell’arrivo del treno alla stazione. Nei decenni immediatamente successivi il genere fu toccato da grandi personaggi del cinema: Chaplin, Keaton, Hitchcock. E, con il sonoro, quello del pugilato si afferma come un modello disposto a declinarsi in moltissimi altri generi: noir, melodramma, commedia, biopic… Visconti eleva il genere avvicinandolo alle tragedie verdiane che metteva in scena a teatro: l’unico che lo avrebbe eguagliato sullo stesso campo, sarebbe stato Scorsese vent’anni dopo con Raging Bull.
Rocco e i suoi fratelli è la tragedia in cinque atti della dissoluzione della famiglia Parondi: cinque figli e una madre le cui antiche tradizioni non reggono il trasferimento dalla Lucania a Milano. È la storia di Simone (Renato Salvatori), un talento della boxe che si lascia corrompere dall’alcol e dal denaro, di Rocco (Alain Delon), che, appesantito da un senso di colpa non spiegato, protegge a tutti i costi suo fratello Simone, di Nadia (Annie Girardot), una Violetta Valery di un’Italia a cavallo tra tradizioni e modernità.
Come nelle grandi tragedie, non c’è un personaggio esemplare assolutamente positivo, forse solo Ciro si avvicina, pur non afferrandolo pienamente, al pensiero dell’autore. Ma Visconti, tra tutti i personaggi, inveisce maggiormente sulla madre (interpretata in maniera spettacolare da Katina Paxinou), veicolo di tutta una tradizione secolare bigotta. È la madre povera, la prima a sostenere la cultura borghese dell’onore e dei soldi e colei che allatta il maschilismo tra le braccia: «Sai mamma che dice? Dice che se un uomo vuole veramente una donna, se un uomo è un uomo, se la piglia.» Con premesse del genere, il sacrificio di Nadia è inevitabile affinché si chiuda per sempre con il vecchio mondo, ma purtroppo non è sufficiente.
Simone si comporta come un Dioniso libero per Milano: ruba, stupra, uccide senza che l’autore lo biasimi più di quanto Eschilo, Sofocle e Euripide facevano con il “male” nelle loro tragedie. Come loro, anche Visconti afferma che il “male” esiste, è connaturato all’uomo e l’unica cosa da giudicare a riguardo è la reazione dell’uomo al manifestarsi del “male”. Rocco, per esempio, sbaglia. È troppo legato alle tradizioni: il perdono cieco e l’attaccamento irrazionale ai legami familiari sono sovrastrutture del vecchio mondo che possono portare solo al peggio. Ironia tragica: Rocco, il cui nome è profetico nel mondo della boxe (ricorda i campioni Rocco Mazzola e Rocky Marciano), è portato per il ring ma non aspira a combattere. Purtroppo si auto-costringe a farlo, per rimediare a un errore di Simone, condannando così a morte (più o meno metaforicamente) Nadia, Simone e sé stesso.
Qualcuno ha considerato Rocco e i suoi fratelli un sequel de La terra trema (Luchino Visconti, 1948), come se la famiglia di ‘Ntoni si fosse trasferita al nord a cercare fortuna. La continuità tematica della questione meridionale rimane indubbiamente, insieme a quell’ottimismo viscontiano nascosto negli avvenimenti tragici, ma che viene leggermente a galla nei dialoghi finali. Se con La terra trema aveva macchiato Verga di ottimismo, con Rocco e i suoi fratelli Visconti afferma definitivamente che “Dio è morto“. È un passo in avanti, ma non c’è la garanzia che sia positivo: solo l’essere umano può stabilirlo.
Abbiamo la fortuna di poter recuperare Rocco e i suoi fratelli al cinema questo luglio dall’11 al 17, grazie alla rassegna del 120o anniversario della Titanus.