Woody Allen l’avevamo lasciato con Un giorno di pioggia a New York prima che l’arrivo della pandemia ci andasse a privare dell’appuntamento praticamente annuale con il cinema dell’autore statunitense. Il 2020 di Allen, floridissimo ottantacinquenne, è stato comunque un anno particolarmente intenso. Ha visto la luce la sua autobiografia, A proposito di niente, dove il regista sviscera molti retroscena della sua vita anche privata e si sofferma sull’eterno scontro che lo vede contrapposto all’ex musa e compagna Mia Farrow. Primo colpo di un’ennesima battaglia alla quale la Farrow in sostanza risponde con il feroce documentario Allen v. Farrow, che è arrivato nelle prime settimane di quest’anno. Una vicenda sgradevole, aggrovigliata, che si protrae oramai da tantissimi anni e si porta dietro l’inevitabile spartiacque del team Allen o team Farrow, non senza ipocrisie.
Non entriamo nel merito, non ci interessa come invece lo fa il passare del tempo che una figura geniale come quella di Allen attraversa curandosi il giusto delle intemperie che lo circondano, ma senza mai abbandonare il filo d’Arianna della sua esistenza. Sempre cinica, accarezzata da un nichilismo tenuto a braccetto come un compagno d’avventura che è terminale di riflessione per una creatura alla soglia dei fatidici novanta e che si guarda indietro sempre caustico, ma anche con senile delicatezza.
Dicevamo infatti che il 2020 è stato un anno comunque pieno per Allen, che lo scorso settembre presenta Rifkin’s Festival, suo ultimo film (trailer), al Festival internazionale del cinema di San Sebastián. E Allen il film lo ambienta proprio lì, a quel festival di San Sebastián, facendolo vivere in prima persona a un Mort Rifkin (Wallace Shawn) per il quale i festival di cinema non sono più quelli di una volta. Non sono più luoghi di assorbimento culturale, di crescita del sentimento nei confronti delle “domande alte”. Non sono più fucine di classici del cinema! Ora è tutto conferenze stampa, mercato dei film, stagione dei premi, spinta adulatoria e accomodante. Nemmeno la critica va più a criticare.
Il triviale s’è preso il posto del profondo, la diatriba tra il cinema alto e il cinema basso si reitera in una lotta gigionesca che Allen sa benissimo essere tale. E infatti il suo caro Mort (uno degli innumerevoli frammenti alter ego del regista) vive la sua confusione tutta interiormente mentre il mondo intorno a lui viaggia a mille, duemila, tremila. Si rifugia in sogni in bianco e nero che ricalcano quei “great classic movies” che tanto ama e che finiscono per canzonarlo mentre ne sottolineano una manifesta inadeguatezza, un complesso di accettata inferiorità che solo uno strizzacervelli è pronto ad ascoltare con pazienza, in silenzio – o noi nel buio della sala.
Ma là fuori il mondo del cinema ha cambiato forma senza perdere lo smalto della sua capacità fascinatoria. Non ci sarà Godard ma c’è Philippe (Louis Garrel), il nuovo brillante del cinema “impegnato”, bello, aitante, baciato dal sole di una San Sebastián inondata di una luce che ancora una volta scaturisce generosa dalle mani di Vittorio Storaro. Insomma, l’amore che Allen prova per i suoi personaggi c’è sempre e non viene meno, accompagnato da vicino dalle eterne, grandi domande che a lui in primis appaiono come un retaggio consolatorio in un’era che pare non potersi più permettere di fermarsi troppo a riflettere («Sei un intellettuale, non un poeta» come un monito da ripetere a se stessi).
Poco importa però, non è tanto un’accusa quanto un punzecchiare come una zanzara svolazzante per stimolare qualche reazione, per divertirsi un po’ a vedere come questi corpi scattano e si muovono mentre Mort si arrovella nell’impasse del suo cervello fumante. Rifkin’s Festival gira così, tra i nuovi artisti, i nuovi discorsi, le nuove gioie amorose, con un saltellare di chi fuori posto si sente ma gli va comunque bene come sempre gli è andato bene, perché sa di essere pronto a rincasare nella certezza della desiderata New York.
Rifkin’s Festival esce al cinema il 6 maggio.